L’anno scorso, ai primi colori di settembre, in procinto di sistemare il taglio di capelli che porto da qualche anno, un carré corto, spettinato, modellato ad arte dalla mia insostituibile Adriana, Livia mi ha suggerito di lasciarli crescere.
Il tempo mi fa paura, ingaggio periodicamente con lui infruttuose schermaglie, e non sono né “mastro” né “destro”, come direbbe il Berni (“L’Orlando innamorato” di Matteo Maria Boiardo, riscritto da Francesco Berni, Libro I, IX, v. 5), inevitabile la disfatta.
Il tempo, appunto, mi ha indotta a rinunciare alla lusinga dei capelli lunghi. Qualche tempo fa, tra l’altro, un’amica ha citato un’imbarazzante massima che non conoscevo e che fa riferimento ai rischi che corre una capigliatura fluente sul corpo di una donna matura che, pervicacemente, si ostina a fregiarsene: dietro liceo, davanti museo. Sarebbe stato quello l’effetto che avrei suscitato in chi mi avesse incontrata? No, neanche a discuterne, senza alcuna esitazione ci avrei rinunciato in partenza, tanto più che mi sono sempre sentita perfettamente interpretata dal mio carré rivisitato.
Sono nata nel 1964.
A quattro anni mia mamma mi iscrisse al corso di danza classica al teatro comunale di Voghera, diretto dalla Maestra Censi.
In mezzo a un mondo di giovani donne con i capelli cotonati e a un nugolo di libellule danzanti in tulle bianco, io ero l’unica bimba con i capelli corti, con una frangia bionda su un taglio alla Beatles, spiovente sugli occhi grigi e un nasino vagamente all’insù, a quel tempo.
Adoravo i capelli lunghi, li desideravo disperatamente e mi crucciavo perché i miei erano sottili e non appena la mamma, per assecondarmi, rimandava di qualche mese il taglio o, meglio, me li faceva accomodare per farli crescere, si rivelavano in tutta la loro irrimediabile inconsistenza.
Avevo gli spaghetti in testa, come mi sentivo dire dagli altri e ad ogni sopraggiungere di estate dovevano essere tagliati corti, un anno cortissimi – scoppiai a piangere, nonostante avessi impiegato tutte le mie energie per evitarlo, di fronte allo specchio, nel salone della Silvana, la nostra pluripremiata parrucchiera di Pavia – perché solo grazie a questa violenta amputazione sarebbero cresciuti più forti. Più belli, più superbi che pria, insomma, come la Roma neroniana di petroliniana memoria.
Puntualmente, passata l’estate, la mia corta capigliatura, biondissima per effetto del sole della vacanza al mare, cresceva con lo stesso vacuo vigore di ogni anno. Non mi sarebbe mai stato concesso di provare l’appagante sensazione di sentirmi le spalle accarezzate da una chioma fluente, bionda e ondulata, come quella della bambola che i miei genitori mi avevano regalato a Natale e che avevo chiamato Raffaella. Una bellissima bambola beat, della Furga, che indossava una tutina di maglia rossa, a collo alto, e uno scamiciato di pelle bianca, allora molto in voga, con una piccola tasca e una catenella dorata in vita, e stivali dello stesso materiale e colore.
A rivedermi ora, nelle fotografie che mi aveva scattato papà, i capelli corti mi donavano moltissimo. Già, a posteriori, è sempre così che accade.
Avevo un visetto impertinente, le fossette eternamente sorridenti e il mio inconfondibile stile, a mille chilometri da fiocchi, volant, e, soprattutto, dal colore rosa, che proprio non riuscivo a tollerare. Anche il grembiulino che indossavo all’asilo era diverso da quello di tutte le altre bambine: il mio era a quadrettini arancioni e bianchi. La mamma me l’aveva comprato lungo viale della Repubblica, a Voghera, in una di quelle mercerie di una volta che, accanto alle passamanerie e ai consueti articoli per i lavori di cucito, offrono alla clientela una scelta raffinata di capi di abbigliamento.
Amavo gli abiti e gli accessori che la mamma sceglieva per me. Li acquistava da Cristian, il più prestigioso e caro negozio di abbigliamento per bambini di Voghera, in via Emilia, se non ricordo male. Kilt scozzesi, vestitini corti – uno, in particolare, uno chemisier giallo, a fiori bianchi – e, soprattutto stivali, must, come si legge ora sulle riviste di moda, di ogni rigido inverno lombardo, e una giacca di pelle color cuoio, che possedevo io sola, tra tutti i bambini che conoscevo. Quella giacca di pelle faceva il paio con la mia Porsche rossa a pedali, invidia di ogni maschietto del quartiere, a bordo della quale scorrazzavo sotto i platani del viale e nel forno di Anna, con i suoi figli, i miei inseparabili e adorati gemellini, Daniele e Nicola.
Passati cinquant’anni da quella vivacissima e allegra bimbetta, è giunto il momento di cambiare, di farmi crescere i capelli, tanto più che non avendoli mai tinti o schiariti, quelli bianchi, commisti ai biondi, li valorizzano in una massa folta che, in tutta verità, non ho mai avuto.
Me lo ha consigliato Livia a settembre, scrivevo all’inizio, ma io mi sono accorta che mi piacciono i miei capelli il 31 dicembre del 2020, a dispetto dei figli che crescono, dei dialoghi che si interrompono, del sordo e ostinato rammarico delle omissioni, delle prospettive da rielaborare, perché sono qui e voglio essere felice.
Voglio i capelli lunghi e la ragazza che ho dentro è spettinata.