Qualche giorno fa, nel corso della puntata di un noto programma televisivo, in un omaggio al giornalista Vincenzo Mollica, sono stati mandati in onda brevi estratti di alcune sue interviste a celebri personaggi del mondo dello spettacolo.
In particolare, un passaggio di quella a Fabrizio De André, in Sardegna, a cinque anni di “latitanza dalla canzone”, come il cantautore stesso la definisce, ha toccato una mia corda sensibile. Dopo aver parlato del suo rapporto con l’isola, della necessità del sogno e dell’utopia, senza i quali l’uomo sarebbe “una sorta di cinghiale, laureato in matematica pura”, alla sua domanda: “Qual è il desiderio che vorresti realizzare?”, De André risponde: “Sicuramente in qualsiasi posto, in qualsiasi momento riuscire a rincontrare mio padre”.
Già, incontrare di nuovo, quando questo è semplicemente impossibile, un pericoloso esercizio stilistico dell’immaginazione, quando ormai non è più il tempo, che irrimediabilmente si è chiuso su se stesso. Sbarrato ogni varco di accesso.
E se ci fossi stata io, di fronte a lui, in quel momento, al posto di Mollica, non sarei stata in grado di procedere oltre il silenzio. Perché non avrei potuto fare a meno di pensare a mio padre. E a quel punto l’intervista si sarebbe conclusa.
Dalla fine dell’estate del 2016, quando lui se ne è andato, ho pensato che avrei desiderato, che mi sarebbe bastato solo un giorno in più.
Essere ancora, un altro giorno, insieme a lui. Per riscattare le mie omissioni, assolvere la mia caparbietà, concedermi in tenerezza. Io che conoscevo il gesto e il tono e talvolta non li ho usati per accostarmi a lui. Un uomo non semplice, questo è certo, educato e cresciuto in un altro tempo, in cui i genitori sono madri e padri e non amici dei propri figli.
Cosa gli ho fatto conoscere di me? Cosa avrebbe desiderato che io conoscessi di lui? Impossibile risposta in un momento come questo, in cui tutto mi è necessario.
Nel 1989, dopo essermi laureata, a Roma, dove ci eravamo trasferiti cinque anni prima, ritornai per un mese a Pavia, a respirare l’aria di casa e a guardarmi attorno, in cerca di occupazione. Ero ospite dei nostri carissimi amici, Raffaele e Lia. Abitavano all’ultimo piano, nell’appartamento di fronte al nostro, quando ci conoscemmo, e avevano due bambine, Antonella e Cinzia. Anni indimenticabili.
Nel 1989, appunto, tornai a Pavia e un giorno incontrai papà, a Milano per lavoro. Mi venne a prendere alla stazione Centrale. Scesi dal treno con il batticuore, come ad un appuntamento galante.
Mi invitò a pranzo ed io ebbi netta l’impressione che i presenti nella sala, che ci stavano osservando, stessero pensando che fossimo amanti.
Lui era sorridente, compiaciuto degli abiti che avevo scelto di indossare: un tailleur color cioccolato, di seta spessa, che adoravo, e il mio imprescindibile impermeabile.
Papà. Uno di fronte all’altra, uguali, la nostra pelle chiara, gli occhi tagliati all’insù, nocciola i suoi, grigi i miei. Felici, ma non confidenti.
Forse la vita ci rivela solo quel che basta, e a noi spetta indovinare tutto il resto. Avrei desiderato che lui parlasse con me nel modo in cui agli altri parlava di me, che mi abbracciasse stretta e mi baciasse, e inventasse per me un soprannome solo suo. Tante piccole, deliziose sciocchezze con cui si vezzeggia la propria bambina. Ma io ero diventata grande e lui, non se lo era mai perdonato, non aveva conosciuto il modo di accompagnare la ragazzina a diventare donna.
Scrissi una poesia a proposito di un quadro della mia amica pittrice, Antonella Cappuccio, che raffigurava un uomo che si allontana, di spalle, e una bimba, in primo piano, che salta contenta sulla sua jumping ball. La lessi qualche anno fa, in occasione del vernissage di una sua personale.
Papà si riconobbe e si commosse.
Non si torna indietro e se ci fosse mai concesso, rifaremmo puntualmente ciò che abbiamo già fatto: tale sarebbe la beffa che ci riserverebbe la sorte che si è divertita a prendersi gioco di noi, concedendoci l’impossibile opportunità di riproporre a noi, nuovi e consapevoli, qualcosa di cui già conosciamo l’esito e, dunque, sapremmo affrontare al meglio.
E mentre in quel giorno in più, con mia madre, avrei scelto il viaggio, avrei spinto l’azzardo ancora oltre, accompagnandola per l’ultima volta a Milano o ovunque avesse desiderato andare o ritornare, a risarcirla di tutto ciò cui aveva rinunciato, con mio padre avrei fatto esattamente il contrario, sarei rimasta lì, davanti a lui, non importa dove, a raccontargli come ero stata felice quando lo avevo amato.
Ricordi meravigliosi e indelebili Nella mente e nel cuore.
Sì, Titti, è proprio così. Grazie
Sembra di vivere insieme alla scrittrice quei momenti… Tanto reali… Tanto sentiti
Come toccare le corde dell’anima con questo ricordo, così intimo, così caro.
Antonella, quell’appuntamento è stato uno dei momenti più intensi che ho vissuto con papà. Grazie per le tue parole
Schegge sincere, dritte al cuore, a narrarci la Vita e ogni colore di emozione che essa ci regala, nel bene e nel male. <3
Grazie, Andrea, per l’attenzione che mi dedichi costantemente!
Ho avuto l’onore di conoscere tuo padre. Un uomo al quale ho voluto bene e che mi ha voluto bene!
Ironico ed intelligente, schivo, pudico e delicato……mille e più aggettivi potrei ancora enunciare, ed invece …….. penso sempre che tu sei il suo trepido esempio fatto vita, la sua bionda appendice…..Mi manca il suo sorriso dolce!
Milla, “la sua bionda appendice”…che splendida definizione! Grazie