Mancano pochi giorni a Natale e la Fondazione Telethon, come ogni anno, dà vita ad una serie di interessanti iniziative a sostegno della lotta contro le malattie genetiche rare e invalidanti che colpiscono milioni di individui in tutto il mondo, soprattutto i bambini, che spesso non raggiungono i cinque anni di età, promuovendo la ricerca scientifica, grazie alla raccolta di fondi, alla selezione e al finanziamento di progetti, alla collaborazione con istituzioni sanitarie pubbliche e case farmaceutiche, un complesso di attività che, ad oggi, ha consentito di mettere a punto terapie per patologie prima considerate incurabili.
Nel dicembre del 2018, la pittrice Antonella Cappuccio sposò la causa della fondazione, donando il ciclo di opere intitolato “Le promesse mantenute”, messe all’asta da Cambi, a Milano, il cui ricavato fu interamente devoluto in beneficenza. Un progetto geniale e tenerissimo nel contempo, un omaggio a 75 grandi Italiani ritratti da bambini; 75 frammenti di immortalità, nati dalla matrice straordinaria che ha elevato a sistema di Bellezza l’esercizio del pensiero artistico, scientifico, le avventure dello spirito, l’azzardo del sogno, il coraggio della testimonianza, il sacrificio e la tensione morale dell’impegno civile.
Da Luigi Pirandello a Maria Montessori, da Angelo Roncalli a Enzo Ferrari, da Eduardo De Filippo a Rita Levi Montalcini, da Nilde Iotti a Federico Fellini, solo per citare alcuni dei nomi capaci di fornire un’idea dell’universo variegato delle eccellenze che hanno ispirato l’arte di Antonella.
Anch’io ho preso parte a questa affascinante avventura, accogliendo con gioia la sua proposta di comporre due testi che ne raccontassero in versi il significato.
La prima poesia, “Il giuramento”, è il patto sacro e assoluto che ogni bambino ha stretto con se stesso, una sorta di dichiarazione di intenti con la quale si è impegnato a fare della propria esistenza un capolavoro.
Il giuramento
Se mi domandi
cosa
voglio diventare
prometto e giuro
di concepire a me
sezione aurea
regola e arte di limpido pensiero.
Voglio gesti di talento
quotidiano
il garbo
un rivelarsi progressivo
occhi sul mondo
accento unanime.
Voglio guadagnarmi il privilegio
di essere umano.
Nella seconda poesia, “Il tempio”, la costruzione ha accenti completamente differenti, i versi sono articolati come in un contrappunto che attraversa più di cento anni di storia d’Italia, un controcanto che capovolge l’etimo del canto. La trama si intesse di due voci che si rincorrono e intersecano: la prima, che prende avvio da un’immagine che grida orrore, scandita dalle date tragiche dell’assassinio di Pasolini, degli attentati terroristici, delle stragi di mafia; la seconda che si scioglie dai vincoli di questo affresco di abisso cupo e si dispiega limpidissima e libera, sino ad assurgere alla dimensione di narrazione dominante. La voce della Bellezza.
Il Tempio
Carne
fatta a pezzi
e sangue
evo efferato di contemporaneo
e ovunque
un patrimonio in dismissione,
mandato a morte l’Uomo
e grumi di incivile
coscienza
spot indecente
brevi istanti di televisione commerciale
addomesticata
a ricomporre in fretta
il morto ammazzato
sotto gli pneumatici di un’auto rubata,
a scompaginare secoli della propria terra
quotidiana attitudine al saccheggio
Fu il 2 novembre del ‘75
il secolo passato, ad Ostia,
all’Idroscalo,
fu quello stesso il 19 luglio del ’92, a Palermo,
in via D’Amelio,
e il 16 marzo del ’78, in via Fani,
a Roma,
e l’8 settembre del ’43,
su per l’Appennino,
e il 23 maggio del ’92, a Capaci,
sull’autostrada da Trapani a Palermo.
Fu quelli e cento altri giorni ancora.
Quelli dello scempio.
E dentro all’ululato
sembrò
un intero paese si contrasse.
C’è un’aria in Italia
che si respira
con la storia addosso.
Dispiega incanto
quell’arte che fa vere le cose
archetipo, forgia di scienza
sistema di bellezza.
Incisa in un guadagnare di spazio
progressivo
diafonico di stirpi in tempo condiviso
viaggiomiraggio di generazioni.
C’era un’Italia da ricostruire
raggirata plagiata imbrogliata
al termine di una stagione
in svendita
da mandare ad oblio
fucilato impiccato il dittatore.
Libero Popolo in libero Stato
non è libero chi non ha pane.
Si raccontò l’Italia
nuda, sfregiata, sorda di miseria
perenne di bellezza avuta in sorte
e quelle immagini di un genere di umano
fecero il giro,
un viaggio capovolto a quello del Grand Tour.
Ci andammo noi là fuori,
oltre le Alpi,
mostrammo
pionieri di millenaria opera a mano
il nostro modo di guardare il mondo,
noi cittadini, lavoratori dello Stato
di diritto Uomini,
noi poeti di corali solitudini,
lievi abissali di immaginazione,
ministri di scienza
comunicatori di infinito
tedofori di sociali responsabilità,
dissacratori di favole moderne e morale a buon mercato,
pedagoghi di uguaglianza,
sacerdoti di scuola popolare
dei figli della terra e della fabbrica,
fini dicitori di classica avanguardia
giocolieri di macchina di scena
note policrome, voci, vibrazioni.
Dentro di noi, creature,
edificammo un tempio.
Scriveva Boris Pasternak: “Il talento innato è una via che conduce al futuro. È un modello infantile dell’universo, di un universo fondato sin dalla tenera età nel nostro cuore, una specie di libro di testo per capire il mondo dal di dentro, dal suo lato migliore e più fulgido. Questo dono insegna l’onore e il coraggio, poiché rivela quale favolosa importanza abbia l’onore nel sentimento drammatico dell’esistenza. Un uomo di talento sa quanto si arricchisca la vita in una piena e giusta illuminazione e quanto perda nel buio. L’interesse personale gli impone di essere orgoglioso e di perseguire la verità. Questa posizione può significare nella vita anche la tragedia, ma questo ha un’importanza secondaria”.
Anche quest’anno Natale e, ad uno ad uno, tutti i nostri migliori propositi di essere migliori.