Ho sognato un viaggio in Siria sin dai tempi dell’esame universitario di Archelogia delle province romane: l’architettura gialla di pietra calcarea, il deserto, le vie carovaniere. Un anno dopo il mio viaggio è scoppiata la guerra civile. Questo taccuino racconta luoghi straordinari conservati intatti solo nella memoria.

Ho visto la Siria battuta dal vento

 

Sto partendo per la Siria con immagini preconfezionate di colonnati e arabeschi, rupi e case abbarbicate, deserto e fortezze.

Volo via, il mio viaggio si allontana nelle storie di sei millenni di uomini.

 

La Grecia è benedetta dagli dei e da una luce di cristallo che ritaglia le sagome delle isole in tridimensionale, la costa alta, i canaloni.

Sono sicura di riconoscere Cefalonia. Il mare impercettibile biancheggia.

Rimpiango di non avere una carta.

Poi tutto piomba in un grigio lattiginoso che si tende sull’orizzonte e annienta la possibilità di immaginare.

 

Ad Aleppo si giunge che il giorno è compiuto.

L’aereo la sorvola in virata, ci dà la percezione dell’estensione del suo abitato di case basse. L’illuminazione urbana è soffusa, ovattata da una coltre.

Nel tragitto verso l’albergo Aleppo ci si rivela in una teoria di botteghe sulla strada, sature di utensili, tubature, accessori per automobili, uomini seduti.

Aleppo, la città del rame, a metà strada tra il mare e l’Eufrate, citata nella sua grandezza dalle fonti egizie ed hittite, dalle tavolette degli archivi di Mari e di Ebla.

Saccheggiata dai Bizantini, assediata dai Cristiani, avamposto islamico della guerra contro i Crociati, devastata dai Mongoli, distrutta da Tamerlano, ferita a morte dal terremoto.

Nel vivace formicolio di cose e persone, in mezzo al traffico di auto arrangiate, un’aria di dismissione e precarietà, edifici in abbandono, vetri rotti accanto ad arditi bowindows e al sigillo raffinato delle costruzioni medievali.

In sgargianti abiti da sera a balze rosse si affacciano i manichini dai balconi-vetrina dei piani superiori.

Nel suggestivo Jdeydé, il quartiere cristiano, il nostro albergo, sontuosa dimora aristocratica del XVII° sec. con corte interna su cui si appoggia con discrezione una struttura di copertura.

Pietra locale e sobrie decorazioni, stile antefissa, che coronano le pareti.

Intorno ad una fontana a vasca policroma, arredi in legno con intarsi di madreperla, tipici della tradizione decorativa siriana, di cui si è trovata traccia ad Ugarit, in frammenti del terzo millennio a. C.

E’ una pausa nell’arrivo attraverso il suq che prende via via la forma della distribuzione per aree dei diversi mestieri e merci in vendita, i negozi di dolciumi e gli aromi dei saponi; l’obitorio delle macellerie e le scale cromatiche delle verdure nelle cassette di legno.

Dopo cena la passeggiata nei vicoli del quartiere cristiano, davanti agli eleganti portoni delle abitazioni in pietra locale e alle imposte di legno delle botteghe chiuse.

 

Martedì mattina ci dirigiamo verso Samaan, alla volta del monastero di San Simeone Stilita, il più importante santuario cristiano del V° secolo d. C., inaugurato nel 473, che conserverà intatto il suo prestigio fino alla distruzione ad opera dei Mongoli.

Percorriamo il massiccio calcareo, lieve, ondulata pietraia, cava a cielo aperto che in un primo momento condivide lo spazio con ulivi, macchie di pini e cipressi.

Fervida attività edilizia in una quinta di palazzi in costruzione.

Case riunite in piccoli nuclei e poi, finalmente, il paesaggio di pietre, ciuffi d’erba, capre, muretti a secco, donne velate al lavoro nei campi.

E i bambini che salutano sorridenti i nostri visi dietro i vetri del pullman.

In mezzo agli ulivi, grigie di sasso in opera quadrata, le Città Morte, strutture che hanno accolto migliaia di pellegrini, nel V° e VI° sec. d. C.

Domina Samaan e il paesaggio dell’arrivo la pietra che abbraccia cromatismi dal grigio all’ocra, venata di ombra e di giallo.

Il santuario rivela una grande maturità architettonica che supera la concezione della Domus Ecclesiae – per la prima volta a Doura Europos nel 232 d. C. – diventando di fatto uno dei primi esempi tipologici di chiesa cristiana, a pianta ottagonale, un modello molto diffuso nell’ottanta per cento delle chiese della zona.

Poetica la suggestione dei cosiddetti capitelli “agitati” dallo Spirito Santo, le cui foglie di acanto si muovono al vento.

San Simeone, rispetto ai suoi immediati precedenti, presenta una significativa novità riguardante la profondità dell’abside, più piatta, forse perché più luminosa, affiancata da due stanze, una destinata ai fedeli e l’altra al clero.  L’architettura risente fortemente degli influssi locali, ad esempio nelle dimensioni degli ampi archi progettati non tanto per ragioni di carattere statico quanto, piuttosto, per un effetto squisitamente estetico, e nel ciborio sopra l’altare.

Fuori dalla basilica, sottile la cortina degli ulivi frammenta il salto sul pendio petroso.

Il battistero, a pianta ottagonale iscritta in un quadrato, è esterno alla chiesa.

Fino al X° secolo venivano battezzati solo gli adulti, a Pasqua, con una grande festa che coinvolgeva l’intera comunità.

E’ una giornata primaverile, calda di margherite e ciliegi in fiore.

Possente il fronte di pietra, sulla via del ritorno, davanti alla città morta. Ha lo spessore di una gola. Procediamo a ridosso di questa piega, socchiudo gli occhi alla luce uniforme, in faccia al sole.

Una chiesa di inizio V° secolo, massiccio muro di ingresso a tre ordini sovrapposti di archi e finestre rettangolari dai quali si apre la campagna e una cava di pietra che taglia la terra a gradoni.

Addosso alle rovine una modestissima abitazione, capre, due oche, bambini e una ragazza che attinge acqua da un pozzo a terra, sotto gli occhi di un uomo in kefiah.

 

Pranziamo ad Aleppo e poi la giornata si sposta nella moschea degli Omayadi, tra il culto di Zaccaria, padre di San Giovanni Battista, che si crede che qui sia sepolto, le risate e i giochi dei bambini a piedi nudi nel grande cortile porticato, sul pavimento che si disegna in geometrie bicolore.

Il suq si apre appena al di fuori della soglia della moschea, attraversata la strada, in una prospettiva di volte a crociera, cortili di dimore aristocratiche, madrase, caravanserragli.

Si macchia dei colori accesi delle spezie e della frutta secca, delle stoffe che si snodano e accatastano, mentre i furgoncini sfrecciano tra i nostri passi e le ceste di ricotta appoggiate per terra, accanto alle botteghe.

Poi usciamo e tutto si fa diverso, ci scompagina le immagini accalcate di folla e vicoli perché adesso è già scesa la notte e lo spazio si apre, si fa piazza, ai piedi della cittadella.

Luci colorate si alternano sulle volte che sostengono il passaggio di accesso.

Mi si era rivelata ieri, all’arrivo, dall’aereo.

Sono al cospetto del Signore che ancora non mi ha concesso il passo.

 

Torniamo verso l’albergo; il traffico è intenso e lo smog ci vortica addosso, insieme alla polvere delle strade, al pervadente senso di interrotto, mai finito. La stessa storia di Aleppo è un susseguirsi di interruzioni: terremoti, saccheggi, distruzioni. E camminando si avverte sui lastricati stradali pieni di buche, in via di ripavimentazione, un’aria di guerra o catastrofe appena dietro l’angolo, di cui si sono persi gli esatti contorni nella memoria tanto sembra connaturata agli edifici degradati, fiochi di vita che talvolta si intravede dietro i vetri sporchi.

 

E’ mercoledì. Saliamo alla cittadella, oltrepassata la porta di accesso e percorso un passaggio in muratura su arcate.

L’ingresso è un baluardo di muro tenace, interrotto dal paradosso di una stretta e lunga feritoia nella sua parte superiore.

Ed è di limite invalicabile la subitanea sensazione che ci coglie.

Si apre a destra, per vanificare gli attacchi degli arieti, la porta di bronzo che reca in riquadri ripetuti il ferro di cavallo ad arco, sopra la punta di freccia, simboli dell’agile e robusto cavallo arabo, capace di inerpicarsi su aspri pendii, cavalcato dai guerrieri musulmani, leggeri nelle loro tunichette di maglia di ferro, fulminei nell’assalto degli arcieri.

Siamo all’interno del bastione, abbiamo attraversato due passaggi a C, e ad L.

Gli assediati lanciavano sul nemico, attraverso feritoie e caditoi, ogni sorta di deterrente, dalle pietre all’olio bollente. 

Aleppo contro i cristiani, guidata dal curdo Saladino, fondatore della dinastia degli Ayyubidi che metterà fine alla terza crociata.

I Mamelucchi, dopo la devastazione della città per mano dei Mongoli, ne ricostruiranno nel 1292 la cittadella, lasciandone la traccia nell’architettura della residenza imperiale, giocata, nella pavimentazione e negli archi delle porte di accesso, sulla combinazione di pietre di due colori, ocra e verde-nero. Perché, a differenza del curdo Saladino che proveniva da una nobile famiglia, i Mamelucchi erano schiavi e una volta saliti al potere esaltarono la qualità estetica nell’edificazione che promossero, quasi una rivalsa nei confronti delle loro umilissime origini.

Poi la sala del trono, molto vasta, tanto quanto, parrebbe incredibile, l’ampiezza del grande bastione. 

Scendiamo lentamente dal tell. Ultima notte ad Aleppo la Bianca.

 

Il tragitto verso Apamea segue un tratto della superstrada che congiunge il nord al sud del paese, lungo la quale corre ininterrotta la sequenza dei pini.

Il paesaggio verdeggia primaverile sotto i fiori di pesco, di ciliegio e gli ordinati alberi di pistacchio.

Poi svoltiamo e entriamo in un centro abitato sovrapposto di case non finite, o in via di costruzione, apparentemente buttate le une addosso alle altre, senza un piano, marciapiedi.

Negli spazi tra una casa e l’altra sedie di plastica sui cui conversano uomini e donne.

Sfrecciano motociclisti su selle ricoperte di drappi di stoffa.

Il colonnato si intuisce in lontananza, insieme alla cittadella, sull’altura di fronte.

E’ tutto verde, la strada è in salita e si prova la sensazione fisica di decollare sul pianoro, con lo scorcio della catena costiera sulla sinistra e il perimetro dell’elegante e robusta cinta muraria ellenistica non restaurata.

Il cardo maximus è il frutto del lavoro di una équipe di archeologi belgi che dagli anni ’30 ha rimesso in piedi le colonne sparse a terra e ricoperte dalla vegetazione.

Ha un andamento nord-sud e le colonne, osservate verso meridione, hanno una dominante cromatica grigia; viste al contrario, nella direzione di Antiochia, assumono una tonalità calda, quasi dorata.

Ad Apamea tutto è morbido, i prati circostanti ancora da scavare, la valle dell’Oronte, a ridosso del mare, l’eleganza della linea retta, resecata dalla corsa dei motociclisti che ci precedono e ci attendono per proporci souvenirs.

 

La mattina seguente le norie ad Hama.

Anche oggi la luce è uniforme, schermata da una foschia persistente.

La diga sull’Oronte è chiusa e le norie sono patetici scheletri su un acquitrino di scarichi fognari e immondizia che galleggia qua e là.

Peccato. Le norie sono creature del legno ingegnoso e multiforme che batte, alza e canalizza l’acqua nelle case di Hama.

Cigolii in levare, regolari sull’Oronte che qui in Siria disegna la strada dal Libano al varco di Antiochia, e si apre in due laghi, a sud, verso le montagne dell’Antilibano da cui prende vita.

Le norie si appoggiano sull’abitato che si snoda in vicoli dalle pareti bicolore, bowindows e mensole modanate.

 

Ci rimettiamo in viaggio.

La pianura dell’Oronte è grassa di oleandri.

Svoltiamo in direzione del varco di Homs, lo sbocco della fertile pianura della Beqa, dominato dal Krak des chevaliers, baluardo mai espugnato ma semplicemente ceduto dai Crociati, a Baybars, la Pantera, il sultano mamelucco d’Egitto; i Crociati, rimasti ormai in duecento, dell’iniziale guarnigione di duemila uomini, assediati dai musulmani, lo barattarono con la loro vita.

Lo si scorge appena nelle sue torri dalla superstrada.

Poi si sale e purtroppo il senso del dominio del passo è fatto a pezzi dalla selvaggia edificazione, specie verso il mare, che turba la fantasia del viaggiatore che pretende di spingere lo sguardo oltre.

La costruzione è grandiosa, multiforme nell’accostamento dei vari interventi architettonici: le strutture della primitiva fortezza curda, quelle del più importante baluardo dell’Ordine militare dei Cavalieri Ospedalieri, fino al restauro, con l’aggiunta di ulteriori torri, da parte di Baybars.

 

Ma la meta del mio viaggio è ancora lontana, a tre ore verso oriente.

A tre quarti del percorso un cartello stradale indica Bagdad.

Bagdad, mercanti, sultani, ladri, marinai e Sheherazade che conta le storie e tiene lontana la morte, per mille e una notte…

I mandorli sono finalmente alle spalle perché bisogna svoltare verso l’azzardo di un rettilineo in mezzo al deserto che ha fatto grande Palmyra.

Ci entriamo a poco a poco. Un impianto per l’estrazione del petrolio e mi sento sulla via carovaniera.

Il sole è quasi al tramonto, di un pallidissimo giallo.

Quando scendiamo per catturarlo con una fotografia e sentire il deserto sotto i piedi è già sparito oltre l’orizzonte ma la luce è morbida e il vento ci avverte dell’arrivo della notte.

Sulla sinistra la catena montuosa che incornicia Palmyra.

Sulla strada le case di mattoni crudi, abitate da pastori seminomadi. La medesima tecnica costruttiva dei più antichi edifici della città che è nata qui, cinquemila anni fa.

Sono felice e mi riempio gli occhi.

Quando entriamo a Palmyra è notte e il grande colonnato è illuminato.

Dall’albergo la vista è meravigliosa e all’alba del giorno dopo mi sveglio e mi affaccio alla finestra.

Arriviamo alle nove al Tempio di Bel, del II°-III° sec. d. C., occupato dagli Arabi e abitato dai Palmireni fino al 1929, quando vennero trasferiti nella città nuova.

I capitelli corinzi sono in bronzo dorato, un unicum, e l’accesso si apre sul lato lungo, attraverso una rampa sulla quale un cammello, coperto da un baldacchino, trasportava sotto un drappo rosso, invisibile agli occhi dei fedeli, la statua del dio Bel.

Su un fregio sacerdotesse modernissime nella stilizzazione in morbide linee curve, quasi concentriche.

Palmyra abbaglia. Visitiamo le tombe: una a torre, una ipogea, con il medesimo sistema di inumazione. 

Poi è la volta del Museo Archeologico ma ho già la nostalgia dello spazio aperto, dominato dalla linea spezzata del colonnato, dall’altura del castello arabo, da quella metafisica delle sette tombe a torre che scandiscono orizzontalmente il pendio.

Sono le ventitre e io ti chiamo perché ho bisogno che tu sappia che adesso soffia il deserto sulla notte stellata.

Il mio viaggio è arrivato qui. Perché, vedi, non mi è importato granché sapere di aver visto il tempio di Bel, quello di Baal Shamin, il dio fenicio delle tempeste e delle piogge, il sacello di Nabo, la divinità palmirena del destino, il tetrapilo, il teatro, l’agorà, il campo di Diocleziano.

Ti sto raccontando di come il grande colonnato punti verso un’altra meta, Damasco, si spezzi in due, per avanzare verso sud-ovest.

Un cambiamento di rotta dal cuore del deserto, che si fa presente nel vento che ininterrottamente soffia sabbia sul nostro passaggio, ci riempie gli occhi, colora di giallo spesso l’aria e di pallore lunare il sole.

E’ qui che volevo essere.

Dal castello arabo la valle è lontanissima, non è possibile scattare immagini.

Solo da qui si riesce a comprendere in uno sguardo di insieme l’area che cambia continuamente prospettiva, si dilata sul non finito di punti di fuga, spinge sempre più in là la frontiera.

Dal’alto si scorgono aree circolari, quasi vertigini nella sabbia, che accrescono di irreale la percezione di questo posto.

Sto attenta, Mac, dall’inizio del viaggio. Cerco di non lasciarmi sfuggire quello che mi faresti notare tu.

E’ notte e il vento continua a battere raffiche ma il cielo è libero.

Non voglio partire da qui.

Ieri ho sognato l’aria gialla di vento, la stessa che oggi ci ha rallentato il passo tra le rovine.

Sono stanca stasera, mi sono abbandonata.

 

Anche stamane morbida l’alba spegne le lampade sul temenos del tempio di Bel, muove di brezza il palmizio.

Ti ho parlato da poche ore.

Il vento si è posato e l’aria trasparente, ferma, profila le rovine, le intesse nella nostra memoria nella loro storia e destinazione d’uso.

E’ esatta la distribuzione delle architetture ora che le ripercorriamo in pullman, in partenza per Damasco. Direzione sud-ovest. Rimarrò sveglia.

 

A 170 chilometri dalla capitale un susseguirsi di dune di pietrisco.

Non c’è traccia delle case a cupola in mattoni crudi che abbiamo incontrato all’andata.

Il deserto, adesso, si incide di uadi tra la catena palmirena settentrionale e quella meridionale che delimitano la distesa.

Stiamo percorrendo la strada di Diocleziano che ha utilizzato la scorciatoia di Palmyra in mezzo alla sabbia.

Siamo ormai in prossimità di Damasco. Un cementificio, una fabbrica di vetro e poi, dopo qualche chilometro, di nuovo il fastidio di un’edilizia senza cura, seguita da lotti numerati che, per la prima volta da quando siamo arrivati in Siria, esulano dall’uniformità del colore della pietra locale.

Ma saliamo per Maloula e il paesaggio si fa di nuovo verde di cipressi, dirada gli abitati, sulla catena dell’Antilibano, alle spalle la Bequa.

Fa caldo, la temperatura supera di 12 gradi la media stagionale. 

Mentre saliamo il massiccio alla nostra sinistra si ammorbidisce in cime tondeggianti coronate da diademi di rocce.

Ci raccogliamo nel convento dei SS. Sergio e Bacco, nel fluire aramaico delle parole del Padre Nostro.

 

Arriviamo a Damasco solo in tempo per assaggiarla e partiamo per Bosra, l’indomani mattina, in viaggio, sull’altopiano vulcanico dell’Horan,  separato dalla fossa tettonica di Tiberiade dalla catena dell’Antilibano.

Bosra, all’incrocio delle antiche vie carovaniere e delle principali strade romane, tappa obbligata dei pellegrinaggi alla Mecca;  il suo destino segnato nel 1906 dall’arrivo della ferrovia.

Oggi Bosra è un complesso monumentale, che ha conosciuto un lunghissimo periodo abitativo, in pietra basaltica, un cromatismo cupo cui non riesco ad abituare gli occhi che ho dedicato a Palmyra. Ma il teatro è imponente, inglobato nella cinta muraria araba che lascia scorgere archi della cavea.

La scena vivacizza la linea spezzata delle nicchie con le colonne in pietra calcarea. L’abitato, invece, a parte una piazzetta triangolare che sottolinea e dilata la svolta del colonnato – ti sarebbe piaciuta moltissimo, Mac – è dominato da un’estenuata aria di abbandono che non riesce a risparmiare nemmeno l’importante complesso termale.

 

Una breve sosta, sulla via di ritorno a Damasco, nel luogo della conversione di San Paolo, e ancora ellenismo e mondo arabo, avviluppati nel centro storico della capitale siriana, in un continuum di vita e commistione d’uso. Le vestigia del colonnato, sulla via Recta, il muro esterno del tempio di Giove, del III° sec. a. C., le colonne del suo propileo, il sontuoso palazzo Azem, la grande moschea degli Omayyadi, un’ardita architettura, specie nella verticalità del doppio ordine di colonne sovrapposte, comoda soluzione per risparmiare spazio in pianta.

Fuori, nel cortile, la luce intesse d’oro i mosaici.

 

E’ la partenza. Lunedì.

Come i grandi viaggiatori, direbbe Mac, me ne vado senza portarmi via tutto.

Ho visto il vento percorrere l’alba di Palmyra, battere la valle dell’Oronte, il varco di Homs, la strada per Damasco e gli alberi inchinati al suo passaggio.

Ieri, al ritorno dal suq – sulle mani essenza di fiori d’arancio e gelsomino, come in un cortile damasceno – ho camminato lungo la Via Recta,  misurata nella dimensione di un percorso a colonnato, di cui resta qualche traccia, case basse, balconcini, bowindows, minareti e, nel punto di fuga, la porta urbica nel corpo delle mura in opera quadrata.

La città vecchia che mi cinge.

Ma Damasco è un boccone masticato in fretta, un gesto interrotto, manca il tempo e io non riesco a catturarla, anche solo nel largo adagio di un colpo d’occhio.

E’ il capitolo di una storia raccontata senza grazia, da un narratore sbrigativo.

Damasco in cui non sono mai giunta davvero, da cui parto, ora, senza essere inciampata nell’arcano e casuale sortilegio di uno scorcio, nell’istante che si rivela il viaggio.

Damasco. Prima che venga domani ci sarò

 

15-22 febbraio 2010

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