Avevo pensato di portare i miei cari ragazzi della terza a Berlino, una città che, suo malgrado, aveva dovuto sopportare il fardello del ruolo di capitale di un governo, forgiato su un’ideologia nata e cresciuta a qualche centinaio di chilometri  dalle sue avanguardie artistiche. La prima volta anche per me, in mezzo a loro.

Martedì 4 marzo. Partiamo!

Contratta dall’ultimo fastidio organizzativo, sfinita dalla pianificazione delle visite in una città che vedo per la prima volta.

Noie all’imbarco – l’agenzia non ha corretto due cognomi – all’arrivo a Berlin Schönefeld – il pullman che ci attende ignora la nostra meta e C. perde il cellulare – e al punto di ristoro vicino all’albergo – E. non mangia.

Aiuto, Mac, corri a prendermi e portami via…

Il cielo si distende omogeneo, si accorda in questi giorni con la pietra bruna. Ho visto a Berlino tutto ciò che avevo programmato – lascio per me la Karl Marx Alee con la libreria  de “Le vite degli altri”.

Mi è solo mancato l’estro di andare a zonzo, di inciampare nella città.

Mac mi ha raccontato la macchina che si fa edificio. La comprendo nella Neue Nationalgalerie di Mies van der Rohe.

A Potsdamer Platz sento la sua mancanza.

Mi sembra tutto così nuovo e bello e eterogeneo e ritmicamente dentro la città, che da qui si allunga in tanti bracci, in un tempo ancora da venire e verso la guerriera Brandeburger Tor e il Reichstag prussiano con una stazione obbligata davanti alla memoria.

Berlino è dello spazio ampio.

Qui al Denkmal für die ermordeten Juden Europas, nella foresta delle steli di pietra delle anime sradicate il piano è dolce, nelle sue lievi ondulazioni, ma il cemento ti si fa addosso muro, trenodia di timbri acuti e gravi, nelle pareti che si susseguono in metrica, a differente altezza e interrompono l’aria.

Si sta facendo sera. Si accendono le luci sulla Brandeburger Tor. Sembrano luci d’inverno in uno spazio dove c’è poca gente.

Fa fresco, mi riconosco.

 

All’Isola dei Musei Achille e Aiace giocano a dadi in mezzo al silenzio; la Porta di Ishtar mi appare dalla soglia di un’uscita di servizio da cui ci hanno fatto la grazia di farci entrare.

La vedo e sono nella luce gialla di deserto, fresca di giardini al cielo, lontana miliardi di parole.

 

Sono giunta alla meta del mio viaggio: il Museo Giudaico di Daniel Libeskind.

E’ una linea spezzata o una coscienza rattrappita, la folgore della Tisis di Dio, la terra che si spalanca sotto i piedi dell’uomo, che inghiotte chi si è fatto abisso.

Non c’è luce, qui dentro. Dallo zinco spinato dell’esterno penetrano lame.

La Torre dell’Olocausto ci chiude alle spalle la strada.

Il punto di fuga è in alto, irraggiungibile, come la vita per chi è già morto.

Allargo i palmi sulla parete atona e fredda.

Il Giardino dell’Esilio apre all’esterno l’asse che ne porta il nome.

Qui fuori respiri a fatica, è un’aria che grava come il cemento, il piano inganna il passo  e ti ritrovi con le spalle al muro, perdi il filo del discorso.

Shalechet. Cerco le “Foglie cadute”. Salgo una rampa, mi inoltro tra oggetti, immagini, ritratti.

Lo spazio diventa esposizione.

Shalechet. C’è il vento, il sussurro di una madre che consola, la stagione che viene, che scivola su quella che se n’è appena andata in questa parola.

Shalechet è un imbuto che precipita nel buio. Ci cammino sopra, strazio quelle grida e vorrei prostrarmi a terra, inadeguata a ricoprire con tutto il mio corpo tutto l’orrore.

Voglio tornare a casa.

 

Berlino, 4-7 marzo 2014

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