Corso Ercole I d’Este, Ferrara. Tre ragazzi e una ragazza, in bicicletta, in tenuta da tennis, bianchi e dorati di sole e giovinezza, in un autunno d’aria leggera. Pedalano lungo il muro di mattoni, merlato dalle fronde folte degli alberi, sul pavé di ciottoli di fiume, gli stessi di Pavia, di tutte queste città grasse di pianura, che a passarci sopra con le ruote ti percorrono di un tremito sincopato in tutto il corpo. Tintinna sordo il carter. E quell’autunno trasparente, raro, come quelli lombardi che ci spingevano sul Naviglio, fino alla Certosa.
Non so ancora che è proprio questa la strada che conduce Giorgio e i suoi amici al portone del giardino dei Finzi Contini, non mi è venuto il mente di riprendere in mano il romanzo di Bassani, prima di partire, ma sono certa che sia così, passandoci un sabato dopo pranzo, in gita, qualche giorno fa.
Sono trascorsi parecchi anni, poi, dall’ultima volta che ho visto il film di Vittorio De Sica, in televisione.
“L’interminabile muro di cinta che delimitava il giardino dal lato di corso Ercole I d’Este, muro interrotto, circa a metà, da un solenne portone di quercia scura, privo affatto di maniglie…”
Il corso è quasi solitario, solo noi in brigata e le nostre chiacchiere. Mi fermo, Mac è più avanti, dico ad Otello che quello deve essere il muro di cinta del giardino dei Finzi Contini, e lui gli scatta una foto.
Com’è caro Otello, in questi gesti minimi, che scartano le parole e ti si fanno accosto.
Siamo un po’ in ritardo, la stazione è ancora distante e il tempo si assottiglia ma mi basta solo un attimo, lo voglio tenere a lungo negli occhi questo muro, e negli scatti che prendo mentre cammino.
Era autunno anche l’ultima volta che mi fermai qualche giorno a Pavia. Livia aveva due anni e dieci ne erano ormai passati dalla mia ultima breve sosta lombarda.
Mi ero messa in testa di ritrovare un muro di mattoni rossi, peraltro non dissimile agli altri di una qualsiasi città medievale, che correva lungo una strada in discesa percorsa tante volte in bicicletta. Non ne conservavo esatta memoria, più che altro me ne restava un’impressione di curva, accennata appena, nella coda dell’occhio, durante la pedalata.
In quei tre giorni pavesi, sciolta dal ruolo di moglie e di madre, muovevo i passi su un ritorno senza rimpianto, paga del contemporaneo che avevo costruito e che la vita mi aveva guadagnato, nell’altrove di una città dove ero diventata donna, distante dalla terra che coltivo ancora dentro.
Ritornai alla Certosa, lungo l’alzaia del Naviglio, gironzolai in bicicletta per il centro storico, l’Università e i collegi Borromeo e Ghislieri, S.Pietro in Ciel d’Oro, San Michele Maggiore, San Teodoro, il Broletto, le torri di piazza Leonardo da Vinci, ma non fui capace di rintracciare quel muro di mattoni rossi e spessi. Non me ne rammaricai.
In questo caldo dopo-pranzo padano, però, è quello del giardino dei Finzi Contini, che sbarra il varco al tempo e al mondo degli altri, a venire incontro a me che cammino veloce.
I muri, le cinte delle città hanno da sempre esercitato su di me un irresistibile fascino. Come i ponti. Braccia levate in alto a difendere, tese in avanti ad accogliere, antitesi architettonica, affascinante ossimoro dell’istinto che ci spinge oltre, che ci induce a gettare al di là lo sguardo o, comunque, la capacità di immaginare, quando il passo ti viene negato.
Mura, baluardi, bastioni, echi di assedi, invasioni e saccheggi, secoli distanti, dissimili e identici nell’impellente necessità di mettere in piedi una barriera che scongiuri il pericolo del nemico.
Le mura aureliane furono erette in gran fretta: in quel tormentato III secolo d. C., gli attacchi dei barbari si erano moltiplicati e avevano costretto l’impero ad una difesa ad oltranza. Avrebbero addirittura potuto osare spingersi fino a Roma.
I lavori vennero avviati nel 271 d. C. da Aureliano e furono complessivamente portati a termine alla morte dello stesso imperatore, nel 275. Il percorso delle mura non raggiungeva i 19 chilometri, bisognava fare in fretta e, nello stesso tempo, includere nella cinta le colline e le costruzioni di grandi dimensioni.
Edifici preesistenti, come l’Anfiteatro Castrense, appartenente al palazzo Sessoriano, una villa imperiale di tarda età severiana (primi decenni del III sec. d. C.), vennero inglobati nella fortificazione, che si elevava per sei metri, con uno spessore di tre e mezzo, ed era interrotta, ogni cento piedi, poco meno di 30 metri, da una torre a pianta quadrata. Una metà dell’ellisse del piccolo anfiteatro in laterizio, curva con grazia, in questo tratto, la cinta che ne ha murato le arcate, conservandone le semicolonne, sormontate da capitelli corinzi, entrambi in mattoni rossi, e le basi in travertino. Prospettiva a me familiare, all’uscita della tangenziale est, verso San Giovanni, al pari di quella su viale Vaticano, dove la verticalità della cortina di mattoni viene incisa orizzontalmente dal segno della matita di Michelangelo che dà corpo al marcapiano concavo e aggettante, di travertino, come lo spigolo vivo che ne affila e protegge gli angoli.
In verità non è provata la paternità michelangiolesca delle fortificazioni orientali del Belvedere, come, al contrario, la farebbe supporre il suo stile, ma a me piace pensare che sia così.
Chi la mette in discussione fa riferimento al fatto che la costruzione fosse appena iniziata, quando Michelangelo se ne occupò. Ci restano, poi, solo tre disegni risalenti a quel breve periodo che rivelano come egli si ispirasse alla lezione di Francesco di Giorgio Martini, poliedrico artista, architetto, maestro indiscusso delle rocche dell’ingegneria militare del Rinascimento.
Le mura aureliane, i bastioni del Belvedere, formidabili opere in tempi che correvano burrascosi.
A Berlino, qualche anno fa, al crepuscolo, visitai il memoriale per gli Ebrei assassinati d’Europa. Nessun muro in quel monumento, solo una foresta di steli di pietra di differente altezza. Le anime sradicate dal sordo odio nazista.
E per la prima volta, sentii il cemento farmisi addosso muro e interrompere l’aria.