“Si levò il vento, era libeccio, la vetta dell’albero ondeggiava, noi stavamo pronti. In quella in cielo apparve una mongolfiera. Certi aeronauti inglesi facevano esperienze di volo in mongolfiera sulla costa. Era un bel pallone, ornato di frange e gale e fiocchi, con appesa una navicella di vimini: e dentro due ufficiali con le spalline d’oro e le aguzze feluche guardavano col cannocchiale il paesaggio sottostante”.
E’ un miracolo che sia riuscita ad arrivare in tempo. Sono scappata dalla riunione – già, è iniziata anche in ritardo – e il traffico del venerdì, per uscire da Roma, è il consueto delirio.
Nella Sala Consiliare del Comune di Trevignano, alle 17.30, è incominciata la maratona di lettura dedicata al centenario della nascita di Italo Calvino. Per l’occasione ho scelto l’ultimo capitolo de “Il barone rampante”, il trentesimo, quello del volo fantasmagorico che strappa Cosimo agli occhi degli uomini che vivono sulla terra, e lo consegna per sempre al cielo, lui ormai sessantacinquenne, dopo 53 anni di ostinata, straordinaria, disubbidiente vita sugli alberi, nell’istante esatto in cui la voce dell’antica linfa che gli scorre insopprimibile dentro lo chiama a compiere l’estremo balzo, lui che quasi non si muove più tra le maglie strette della vecchiaia, a raggomitolarsi sulla lunga fune che regge l’ancora della mongolfiera e a sparire per sempre nel mare.
Che giorno era? Non so, è stato tanto tempo fa. Era domenica, sì, una di quelle giornate da dedicarsi all’aria aperta anche se il cielo non è azzurro e tira un po’ di vento.
A Vallelunga banchetti di venditori di artigianato vario o presunto tale, le solite cose, e poco più in là lo sterrato con le mongolfiere.
Non ne so nulla, a parte l’indispensabile ABC – la sua diffusione, a partire dalla seconda metà del XVIII sec., per impulso dei fratelli Montgolfier, la cesta di vimini, il bruciatore – e non ho neanche mai pensato che, magari, mi sarebbe capitato di salirci, ma devo scrivere un articolo per il settimanale con il quale collaboro, e l’occasione di questa manifestazione è un ghiotto spunto che non mi posso lasciare sfuggire.
Mi avvicino, sono tutti molto cortesi e disponibili. D’altronde è gente abituata ad ascoltare il vento e a navigare leggera e gentile sul paesaggio, nella cesta di vimini di un aerostato che, sostanzialmente, sfrutta il principio di Archimede e si compone delle medesime parti della prima mongolfiera che si librò nel cielo, tre secoli fa: una navicella, appesa a un pallone, l’involucro, prima in seta, ora realizzato in pannelli di tessuto sintetico, robusto e leggero, cuciti su nastri verticali e orizzontali, che contiene l’aria riscaldata da un bruciatore a gas propano, alimentato da bombole, fissato al quadro di carico, che è andato a sostituire il braciere in cui un tempo ardevano paglia e lana.
Le ceste sono adagiate sul fianco, i palloni sono tappeti multicolori percorsi dalle onde quando l’aria fredda, insufflata dai ventilatori, li riempie, prima di azionare il bruciatore.
E’ l’istante che precede l’inizio, il prologo in cui la vicenda deve ancora dipanarsi e assumere il disegno di un racconto. Ed io sono lì, in silenzio, come tutti gli altri neofiti, a contemplare il gigante che sta per destarsi e levarsi in piedi.
Paolo attiva il bruciatore, no, non c’è pericolo che la fiamma bruci l’involucro, è sottile e lunga circa sette metri, in modo da rimanere sempre al centro del pallone che ora si sta staccando dal suolo, si allunga in diagonale e attende che venga rimessa in piedi anche la navicella, questa anacronistica cesta, fatta di vimini flessibili e tenaci, leggeri ed elastici, pronti a tenere testa agli urti più di ogni altro materiale, a dispetto della loro apparente fragilità.
Siamo in tre e sorridiamo perché è questione di attimi e ci libereremo dall’ormeggio e sarà indimenticabile e lieve. Le mani sul bordo – ci muoveremo appena, questo è certo – e il timore di affacciarci solo un po’ di più, perché tra noi e l’aria non c’è nulla, sotto i piedi un sottile pavimento di fibre vegetali intrecciate.
E’ il vento che conduce la mongolfiera, il pilota non dispone di un timone, non è in grado di stabilire con precisione dove atterrerà, può solo sorvegliarne la quota di volo, scaldando o raffreddando l’aria, e in base a quella e alle correnti, prevedere con molta approssimazione la rotta, leggendo in anticipo le reazioni dell’aerostato. Di questi tempi, poi, non mancano a bordo l’altimetro, il Gps, i due apparati radio ricetrasmittenti, per i contatti con gli organi della circolazione aerea, gli altri aeromobili, l’assistenza, il proprio equipaggio di terra.
La brezza spettina le cime degli alberi, le vampe del bruciatore spezzano il silenzio. Guardo in alto, alla sommità dell’involucro che, mi spiega Paolo, in realtà è aperta. Il pannello circolare che la chiude dall’interno è tenuto in posizione dalla pressione esercitata dall’aria calda che, in questo modo, non ne fuoriesce. Per accelerare la discesa o per facilitare lo sgonfi aggio dopo l’atterraggio, basta manovrare un sistema di tiranti per aprirla.
La gente va e viene, si addensa a grumi intorno alle bancarelle. Il volo sta per finire. Lo sapevamo dall’inizio, del resto, non ci saremmo allontanati dall’area dell’esposizione. Perdiamo quota e seguiamo la corrente. Gli alberi sempre più vicini e l’ultimo vento. Di nuovo la terra sotto ai piedi.
Due anni fa, di ritorno da Tricarico, facemmo una deviazione per Fragneto Monforte, il paese natale di mio suocero. Mac non ci era mai stato. Ci lasciammo alle spalle la A1 e ci addentrammo nel Sannio appenninico e selvoso dell’Italia preromana, la terra degli indomiti guerrieri che impegnarono per ben tre campagne belliche l’esercito dell’Urbe, umiliato dall’onta del giogo, in seguito alla sconfitta subita alle Forche Caudine, nel 321 a. C. E, sorpresa, scoprimmo che lì, ogni anno, si davano convegno da tutto il mondo per il festival internazionale delle mongolfiere.
Proprio ieri, domenica 15 ottobre, si è conclusa la tre giorni della sua trentacinquesima edizione.
Sono alla terza pagina, quasi alla fine, devo fare attenzione a non perdere il segno.
“La mongolfiera, attraversato il golfo, riuscì ad atterrare poi sull’altra riva. Appesa alla corda c’era solo l’ancora. Gli aeronauti, troppo affannati a cercar di tenere una rotta, non si erano accorti di nulla. Si suppose che il vecchio morente fosse sparito mentre volava in mezzo al golfo”.
Anche io l’ho provato il volo silenzioso della mongolfiera! E leggendoti il ricordo si è’ fatto vento… sei entusiasmante amica mia!
Grazie, amica mia!❤