Partire a settembre. Superare la prova sempre più ardua di trascorrere l’estate che ti dissecca e ti fa vacillare sotto i colpi inesorabili di Lucifero e di qualsivoglia altro demone che ti soffia addosso l’inferno africano, e partire a settembre, dire addio a tutti coloro che rimpiangono già le vacanze appena trascorse, inesorabilmente lontane, ricordo archiviato tra tanti, e si sono rassegnati a ricominciare la consueta teoria di giorni pressoché uguali, a transitare ed appiattirsi tra tappe ineludibili.
Settembre è l’altro capo del quadrimestre più sorridente dell’anno, diametralmente opposto a giugno, carico di promesse con quel suo procedere baldanzoso verso l’apice della luce.
Settembre tira a lucido il paesaggio, spazza via la polvere dell’afa, ravviva i colori che si distendono in tutto il loro nitore. Mi prende la smania di andare, mi chiama la terra, la piana rigata dai canali e dai pioppi, la bicicletta lungo il Ticino, fino a Torre d’Isola.
La settimana scorsa, negli spiccioli che restavano di un pomeriggio di viaggio, ho percorso l’Oltrepò, in senso inverso, da Varzi a Montalto Pavese, per scoprire dietro la curva di una stradina secondaria, imboccata solo in virtù delle indicazioni del navigatore, l’altra faccia della collina, che si svela girando inaspettatamente il capo, verde e sorridente di vigne a grappoli neri e bianchi, sotto il cielo assoluto di azzurro.
Mac ed io partimmo il 7 settembre 1997, il giorno dopo il nostro matrimonio. Il contachilometri della sua Marbella rossa segnava 6635.
La nostre mete: la Turchia e la Grecia, così, a braccia larghe, senza aver prenotato nulla fuorché il traghetto della Strintzis Line che da Brindisi ci avrebbe sbarcati a Igoumenitsa.
L’Epiro di monti e di abeti e pioppi cipressini; le prime parole imparate in fretta, tra un sorso e l’altro di caffè turco, denso e pesto, la prima foto, alle nove, “Ombre in Epiro”, al passo di Kataras, a 1690 metri.
Poi la Tessaglia e il paesaggio che si fa più dolce, l’abete che cede la consegna al noce e al fico e alle undici, in quel nostro continuare ad andare, le Meteore e tre falchi che mettono le ali nello spazio di vento tra il sasso e il monastero.
La prima tappa si disegna sulla carta, appare da lontano; poco più in là tutto cambia, si distinguono le rocce, il silenzio si rompe, si accalcano i turisti. Rullini, cartoline e guide nei chioschi, monaci neri in jeep e, in gran parata, le Harley Davidson sulla strada degli ortodossi.
Mac guarda e tace, passa in rassegna l’attesa e pensa che un giorno, all’alba, ci ritorneremo insieme.
I monasteri turbano il paesaggio dei falchi e dei grandi spazi di silenzio e profondità che si accavallano da un tempo che non riusciamo più a percepire.
Proseguiamo per Larissa, ci fermiamo in una taverna dove gustiamo uno straordinario baccalà, transitiamo sotto il Monte Olimpo, facciamo sosta a Epanomì, nella penisola Calcidica, sulla terrazza di un bar dove siamo noi due gli unici stranieri, il giorno del mercato, a bere ouzo e mangiare alici marinate, verdure fritte e sott’olio.
Il traffico vivace di Salonicco e a Makri, nell’ultimo lembo di terra prima del confine turco, la sorpresa, la piazzetta che si accende dopo il gomito del vicolo, sotto le pergole di due taverne.
Quello che stiamo cercando, qui dove ognuno si ferma, si beve un ouzo, si guarda attorno e ride delle cose che arrivano perché tutte passano.
E noi scivoliamo su questi giorni di settembre, percorriamo lo spazio tra genti diverse, lasciamo la Grecia in Tracia, sui carretti di verdura, sugli abiti e gli scialli neri delle donne, sotto i nidi delle cicogne, alti sui pali della luce.
Entriamo ad Istanbul, cingendola lungo le mura di Teodosio e subito clacson, folla lungo le strade e vita che ovunque trabocca.
Istanbul ci ammalia, siamo subito suoi, ci muoviamo con agio anche in automobile tra i suoi quartieri, scavallando dall’Europa all’Asia.
Il 15 settembre è il primo giorno di scuola. Siamo svegliati dalle voci di legioni di bambini e ragazzi che indossano le divise degli istituti che frequentano e sfilano ordinati, dietro gli stendardi dei vessilliferi. Li vediamo dalla finestra del nostro albergo, lo Spectra hotel, sulla piazza dell’Ippodromo. E’ il momento di lasciare Istanbul.
Balikesir, Izmir e i campi coltivati a peperoni, grano e ulivi; Assos e la luna che si eclissa in fronte a un uomo che si inginocchia in preghiera, nel sacro arcano della notte; Troia e la porta Scea che si apre nelle mura che la difendevano; la pietra dorata di Efeso e il mare che si è ritirato lontano dal porto.
A Priene ci siamo solo noi due e uno sparuto manipolo di archeologi, alle prese con il rilievo di un’area. E’ quasi il tramonto. Ovunque pezzi di architrave, triglifi, gradoni e un’infinita selva di rocchi di colonna, accatastati alla rinfusa, sul bordo della terrazza del tempio, quasi dadi gettati sulla tavola da gioco da un gigante annoiato.
Tagliano il tiepido confine della piana. Alle spalle, le cinque colonne di Atena sulla roccia aspra della montagna.
Dodici giorni dal nostro matrimonio, Pamukkale la prossima tappa ma le polle d’acqua turchese, occhi aperti sul banco di roccia calcarea, sono violati da centinaia di piedi di turisti ignari e incuranti.
Il nostro viaggio in Turchia è giunto al termine: sbarcheremo nell’isola più lontana dalla costa anatolica, a Patmos. Spiagge di sassi, ovili, greggi di capre, ulivi e macchia mediterranea.
Settembre si assottiglia a poco a poco e sta per prendere commiato.
Ad Atene il cielo sopra l’Acropoli ripete a memoria le parole di Erodoto.