Scrivimi qualcosa

“Scrivimi qualcosa, mamma”. Qualcosa che mi avrebbe raccontato la sua infanzia e giovinezza, che avrei potuto sfogliare dopo, quando non ci sarebbe stata più lei, accanto a me.
Ho i quadri che ha dipinto, alle pareti, a Roma e a Trevignano, è vero, e tutte le cose hanno una voce da ascoltare. Si schermiva, ogni volta, “non so scrivere” e il suo disarmante pudore le impediva di avventurarsi sul terreno della narrazione.
Qualche tempo fa, riordinando alcuni volumi che aveva sistemato in cucina, sugli scaffali della libreria, ho ritrovato due agende, rilegate in pelle, di quelle che le compagnie assicurative e gli istituti bancari, un tempo, offrivano ai clienti, in occasione delle feste natalizie. Una del 1995 e l’altra del 2000.
Nella seconda, che ho aperto casualmente al contrario, a testa in giù, nella parte riservata alle pagine della rubrica, ho scoperto l’incipit di una storia che parla di un bambina di circa cinque anni, timidissima, che faceva il broncio se la mettevano in posa per una fotografia, mentre la sua bambola, bellissima, alta quasi quanto lei, dono ambito e raro, sorrideva sempre.
Quella bimba che aveva un’amichetta che si chiamava Anna, abitava a Voghera in un vecchio casolare, insieme ad altre famiglie, e i suoi genitori gestivano una trattoria, “Il Pipelet”. Fuori c’erano quattro campi da bocce e le corse, avanti e indietro, felice d’estate, sulla sua biciclettina senza rotelle e ancora la guerra e i bombardamenti che spegnevano le parole in bocca e facevano tremare le gambe, e il rifugio antiaereo che suo padre aveva fatto scavare nel vigneto accanto, per trovare riparo tutti insieme, vicini di casa e occasionali clienti, giù al buio, quando ululava l’allarme.
Non so se fosse giorno o notte, ma quella volta – e sua madre gliele diede di santa ragione – lei riuscì a sgattaiolare all’aperto: voleva vedere gli aerei sfrecciare nel cielo. Poco dopo l’acquedotto, a qualche decina di metri da lei, si sbriciolava sotto le bombe.
Poco più di due pagine, a righe alterne, in elegante grafia inclinata che invano ho cercato, negli anni, di imitare. Calligrafia, la sua, come bello era il tocco e il garbo e il tempo e il silenzio che prestava a ogni cosa, a chi le si accostava.
Il suo racconto termina qui, alle lettere OPQRST della rubrica, strappate le ultime pagine, UVWXYZ, forse perché le sue parole, viste così, sulla carta, le dovranno essere sembrate rigide e mute.
Nei cassetti dell’armadio dello studio di papà, sono conservate diverse fotografie, di tante non sono in grado di ricostruire i paesaggi cui appartengono gli sfondi e i nomi delle persone ritratte. Nessuno a cui chiederlo. In una, in bianco e nero, la mia mamma bambina indossa un delizioso vestitino corto – la mano destra ne lambisce appena l’orlo – e un cappellino di velluto.
E’ un attimo e qualche ricciolo sorride. E’ lei l’unica rivelazione di bellezza, eleganza intatta nello scenario negletto di paese.
In un’altra il parco è di palme liguri e lei è un’adolescente al mare, a Pegli, forse, in pantaloncini e maglietta di seta a righe e i capelli liberi di correre sulle spalle ed è felice. Nuota e va in barca a vela e una volta il marinaio le intima di togliere dall’acqua la mano che ha immerso, può essere pericoloso. Già, i pescecani, penso io, del resto lo dicono a Spotorno di non spingersi a nuoto intorno all’isola di Bergeggi.
Due passi di una storia che non so narrare per intero, anche dopo che in un tardo giugno, sette anni fa, lei ed io scendemmo sul lungolago, a Trevignano, dove ci eravamo ritrovati per il ponte dei Santi Pietro e Paolo.
Si voleva raccontare. La guerra e la scuola elementare, le lezioni da una vicina di casa che fa la maestra, gli esami a inizio d’anno, per l’ammissione alla classe successiva; le medie, il primo anno di Ragioneria, a Voghera, a chiacchierare nei corridoi, durante le lezioni di dattilografia, con Pierluigi che è bello, le fa il filo e le regala profumi francesi; i tre anni in collegio ad Asti, dalle suore, all’Istituto Professionale; la messa alle sei della mattina, quando si rincantucciava ai piedi del letto, sotto le coperte ammonticchiate ad arte, durante l’ispezione nelle camerate, o mentre, inginocchiata, ad occhi chiusi e mani giunte, su un banco della chiesa, continuava il suo sonno; l’ottusa ostilità di Suor Michelina; le fughe del sabato, per ritornare a casa, a Voghera, con il treno, la mia mamma che si scrolla le regole di dosso e non sa stare con chi non le vuole bene; la sua amica, Luigina, cuore semplice e devoto; gli ultimi due anni a Milano, per il diploma; le lezioni pomeridiane di chimica.
E’ ancora alto il sole sul lago e ho l’impressione che si stia esaurendo il tempo. Siamo insieme ed è breve.
Capovolgendo l’agenda del 2000, sfogliandola nel giusto verso, si inseguono le ricette di pietanze succulente di familiare memoria e suggestioni ancora da gustare, rigorosamente classificate nella partizione: antipasti, primi, secondi piatti di carne, pesce, verdure, dessert, marmellate e sciroppi, salse e creme, con un’incursione di Livia bambina, nella trascrizione diligente delle salse ai peperoni e al curry.
Ma qui ha inizio un’altra storia.

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Serenella
1 anno fa

Che bello se si ritrovassero altri scritti…memorie personali e storia di molti!

Flavia
1 anno fa

Bellissima storia di vita, sembra, dopo aver letto, di conoscere tua madre ,un racconto di rara dolcezza grazie!

Mimmo
11 mesi fa

Carissima, se ti avessi vicina ti caverei gli occhi perché, leggendoti, hai fatto inumidire di lacrime i miei! Ma, grazie, con questo racconto del ricordo di mamma ho capito perché Mimmo, tuo padre, se ne innammoró e del perché infine io e Carmela e Lenina e quanti l’hanno conosciuta, ne siamo rimasti affascinati, esattamente come ne fu affascinato il mio amatissimo cugino/fratello! E tu sei sei bravissima a farmi commuovere con i tuoi scritti!

Marina
11 mesi fa

L’immagine della piccola bambina che scappa all’aperto per guardare i grandi aerei rimane negli occhi e nel cuore. Ancora di più in questi giorni bui in cui i bambini di Gaza non possono scappare.