Non avevo ancora compiuto sei anni, ero a Voghera, nel bar dei miei nonni, in un ozioso pomeriggio dell’estate padana di tanti anni fa, e un avventore, che stava scambiando quattro chiacchiere con me, mi domandò quale fosse il desiderio che avrei voluto realizzare se solo mi fosse stata donata una bacchetta magica. Non esitai nemmeno per un istante: avrei voluto parlare tutte le lingue del mondo.
Avrei viaggiato sulle tracce delle antiche civiltà, avrei fatto sosta nei villaggi più sperduti, sconosciuti alle mappe, a raccogliere indizi, ad ascoltare storie, leggende antiche di generazioni. Avrei risalito il lunghissimo corso del Nilo, attraversato il deserto del Sinai, la Giordania, avrei virato verso nord, lungo le coste del Libano, per un passaggio in Siria e riprendere, poi, la rotta verso sud, sud-est, e giungere in Iraq, Iran, Afghanistan, sino alle pendici dell’Hindu Kush.
Si sarebbero eretti davanti ai miei occhi le statue e le colonne dei templi di Abu Simbel, le Piramidi, il corridoio di roccia, la via sacra del Siq di Petra dei Nabatei, il tetrapilo e il tempio di Bel di Palmyra, regina del deserto, i tori alati della capitale assira di Nimrud, la ziqqurat di Chogha Zanbil.
Avrei percorso il ventre della terra che aveva dato alla luce la prima forma di civiltà dell’uomo.
E quel fitto intersecarsi di storie e di strade, di millenni d’acqua e di terra, è il viaggio per il quale, per ragioni diverse, non sono ancora partita.
Un viaggio all’indietro, un ritorno alla casa primigenia che non abbiamo mai abitato, dalla quale, dunque, non ci siamo mai allontanati, ma a cui apparteniamo in nome della reminiscenza platonica, radice prima della conoscenza.
Scrivevo del ritorno, tempo fa, mi domandavo quale ragione ci spingesse a desiderare di rivedere orizzonti già conosciuti, quando non potremo disporre di sufficiente tempo per procedere oltre, consapevoli, tra l’altro, che il nostro ricordo è destinato ad infrangersi contro ciò che ci troveremo di fronte, che inevitabilmente scopriremo mutato, stonato anche solo in qualche dettaglio.
Il ritorno e il suo dolore, la nostalgia, questa struggente parola che custodisce nel cuore del suo etimo i due termini, avvinghiati in un unico stato d’animo, il sentimento cantato di corte in corte dagli aedi dell’epos greco, perché se ne sono andati via tutti e non sappiamo dove, e non siamo riusciti a conservarci intatti a quel tempo.
Abbiamo bisogno del ritorno, noi stessi siamo il frutto di innumerevoli ritorni mitici, ancestrali, semplicemente sentimentali. La possibilità di ritornare ci rassicura, spinge un poco più in là la certezza di esserci ancora.
La dimensione del ritorno è la sostanza delle memorie di viaggio che chiamo taccuini. Scrivo, per non dimenticare, note su ciò che ho visto e vissuto; note storiche, monumentali, artistiche. Ma soprattutto scrivo ciò che sono io di fronte a ciò che vedo e, talvolta, ciò che vedo è come una finestra che si apre su qualcosa che ho già vissuto, che è deposto dentro di me, nella mia memoria.
Potrei platonicamente parafrasare che scrivere è ritornare.
Ogni volta che parto i miei primi pensieri sono il taccuino e la penna. Mi capita spesso di dimenticare qualcosa, ma mai il mio taccuino. Un Moleskine 9 x 14, a righe, con copertina rigorosamente nera, chiuso da un elastico del medesimo colore.
Ho incominciato ad acquistarli dopo la nascita di Livia, allora, però, preferivo l’agenda che dedicava ad ogni giorno una pagina intera, dove scrivere i primi passi della mia bimba sulle strade della vita. Ma questa è un’altra storia.
I nostri viaggi, ormai, a parte qualche rara e, aggiungerei, felicissima occasione, non hanno più il privilegio del tempo lento.
Siamo catapultati in ogni meta che abbiamo scelto come nostra destinazione con relativa facilità, e se da un lato la possibilità di raggiungere in breve tempo qualsiasi angolo della terra ci offre senza dubbio l’evidente vantaggio di viaggiare più spesso, questa stessa possibilità ci dà la fallace sensazione di poter arrivare a conoscere luoghi vicini e lontani, anche se disponiamo di pochi giorni.
Li addentiamo qua e là, in un rapidissimo assaggio, ma senza assaporarne a fondo il gusto, perché ci manca il tempo e corriamo il rischio di sovrapporre nella nostra mente scorci che appartengono a luoghi diversi o, nella più comune delle ipotesi, di non ricordare ciò che abbiamo provato. E questo è un peccato.
Il viaggio è una condizione dello spirito. Bisogna prepararsi, predisporsi al viaggio, il che non significa raccogliere ciò che dovremo sistemare in una valigia.
Predisporsi al viaggio significa prepararsi a potenziare i nostri cinque, meglio, sei sensi, allargare le braccia, arrendersi all’inevitabile cambiamento della nostra prospettiva.