Ancora una volta un termine arabo mi ronza in questi giorni nella testa, dall’inaugurazione della mostra di Antonella Cappuccio, “I RicAmanti”, il 4 marzo scorso, a Roma. La parola è “raqama”, dalle accezioni comprese tra “punteggiare, marchiare” a “cifrare, scrivere”. Già, perché, per l’ennesima volta, Antonella ha cambiato il medium espressivo, ha posato il pennello, ha riposto la carta colorata dei suoi straordinari collage e si è rammentata di quando, in via Teulada, nelle sue mani prendevano vita i costumi indossati dai grandi attori del teatro di prosa italiano, presi in prestito dal piccolo schermo per i grandi sceneggiati mandati in onda dalla RAI. E allora, in un momento in cui il mondo sbarrava tutte le porte, per arrestare il dilagare di un virus sconosciuto e terribile, nel 2020, ha ripreso in mano l’ago, il filo, avanzi di tessuti e ha incominciato a ricamare storie.
C’è una bicicletta rossa, che qualcuno ha appoggiato al tronco di un albero, sotto la seta della notte, in un attimo di pausa o di pensiero, prima di ricominciare il cammino. C’è un flauto che incanta le creature dell’aria, soffia vita e sogno nel paesaggio addormentato. Ci sono le gocce che piovono l’oro delle parole dei poeti sulla terra assetata di Bellezza; il filo che cuce in uno i corpi degli amanti, il nastro rosso che li avvince sorridenti, l’ombra e l’effluvio delle rose sulla pelle nuda; le braccia di due fanciulle, nello splendore di una spiaggia d’estate, che sollevano alto il telo della notte trapunta di stelle a San Lorenzo.
Gli arazzi di Antonella raccontano la favola cangiante che fa fluire i contorni della Natura in quelli dell’uomo, che trasfigura la vita e il suo quotidiano sentire nel profilo del mito primigenio; le sue opere interpretano con rinnovata e squisita eleganza d’arte i preziosi panni istoriati che dal loro maggiore centro di produzione, nel XIV e XV secolo, la città francese di Arras, prendevano il nome e che riproducevano sul telaio disegni abbozzati su cartoni.
Le manifatture europee producevano capolavori, dalle Fiandre a Firenze, da Venezia a Parigi; il punto a catenella, il passato, il serrato, il diviso, quello a croce e mille altri correvano veloci sulla stoffa a disegnare fiori, animali, architetture, uomini, a raccontare minutamente episodi esemplari che avevano fatto la storia. Il celeberrimo arazzo di Bayeux, che, in verità, arazzo non è ma una tela ricamata lunga 70 metri, larga dai 50 ai 55 centimetri, del peso di 350 chili, commemora, con tanto di didascalie in latino, una memorabile impresa: la conquista dell’Inghilterra per mano di Guglielmo il Bastardo, duca di Normandia, il Conquistatore dopo la battaglia di Hastings quando, alla testa della sua portentosa cavalleria, sconfigge le truppe appiedate di Aroldo, che si era fatto eleggere re dopo la morte di Edoardo il Confessore.
In questo straordinario documento artistico in lino, le sapienti mani delle ricamatrici anglosassoni raccontano con ago e filo di lana, come in una lunga sequenza cinematografica, fotogramma per fotogramma, la presa dell’Inghilterra, dall’allestimento della flotta di drakkar, le navi normanne con prua e poppa a testa di drago, pronte a fare vela per varcare la Manica, alla decisiva battaglia di Hastings. Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia, e il suo fratellastro Oddone, vescovo di Bayeux, impavidi, guidano l’assalto. Fu proprio Oddone a commissionare l’opera e a donarla, o lasciarla in eredità, alla cattedrale di Bayeux, dove venne conservata per secoli per essere poi trasferita nel Centre Guillaume le Conquérant.
Il suo valore documentario, al netto di qualche accento propagandistico che enfatizza il ruolo giocato da Oddone nella conquista dell’Inghilterra, si misura sotto molteplici punti di vista. Le architetture in pietra delle città fortificate, dei castelli, delle residenze reali e della gente comune; la costruzione delle navi nelle varie fasi della lavorazione, dalla raccolta della legna nel bosco, al montaggio delle tavole, con trapano e ascia; gli oggetti d’uso quotidiano, come le suppellettili sulla tavola di Aroldo, a forma di coppa, da cui si servivano i commensali, i lunghi corni dalle estremità decorate con fasce in oro, in veste di bicchieri; le brocche in ceramica sul tavolo a semicerchio imbandito, prima della battaglia decisiva, in onore di Guglielmo, su cui verranno serviti spiedi di carne, pani e dolci. Lungo i margini della storia che porterà i Normanni sul trono d’Inghilterra, ne scorrono altre, accanto ai corpi dei soldati morti e fatti a pezzi in battaglia, che narrano di animali reali o fantastici, della volpe e del corvo, del leone e della gru delle favole di Esopo, dei cani della battuta di caccia, tenuti al guinzaglio o pronti a lanciarsi ad afferrare la preda. Racconti di uccellagione con la fionda, cronache stagionali della terra, dell’aratura e della semina, del lavoro dell’uomo sui campi. Due anni di grandi e piccoli eventi in 58 quadri, su una tela ricamata tra il 1070 e il 1077, probabilmente a Canterbury.
Vent’anni fa arrivammo a Bayeux, che era pomeriggio inoltrato. Venivamo da Caen, dal possente castello che Guglielmo il Conquistatore aveva fatto erigere in cima ad una roccia, a dominio della valle paludosa, alla confluenza dell’Orne e dell’Odon. La sua residenza preferita. Era troppo tardi per una visita al Centre Guillaume le Conquérant e ci accontentammo di bighellonare tra gli edifici quattrocenteschi e cinquecenteschi del centro storico, aspettando il calare della sera normanna, umida di canali, a nove chilometri dal mare, in quella deliziosa cittadina nella campagna del Calvados, di cui avevamo imparato a conoscere le delizie.
Racconto affascinante. Maria Paola prende spunto da un’occasione e ci conduce in un mondo di ricordi, suggestioni e storia. Che voglia di viaggiare! Brava.
Grazie, al prossimo viaggio!