Giovedì ho caricato in automobile sei tele della mamma che mi ero portata a casa già da qualche tempo e avevo sistemato qua e là, sulle librerie in camera da letto e soggiorno. Senza cornice. Papà li aveva appesi così, con un semplice gancio. L’intonaco cadeva sotto la vita che si rinnova nei fiori.
Le ho portate dal corniciaio che mi ha consigliato Milla, tutte tranne una. L’ultima. Struggente perché incompiuta. Potente e definitiva.
La stanza è vuota, tre quarti della parete dominante sono invasi da un verde che parla ombra, intuito appena lo spigolo. Quel che resta del muro è pesca, su cui il pennello ha lasciato scivolare appena una venatura di pallido salmone. Delle macchie della stessa ombra di verde sporcano questo lembo di quadro, forse traccia di un involontario contatto con la tavolozza, a tela ancora fresca.
Sul parquet, raccolte in un abbraccio la coscia destra, su cui si appoggia con la guancia, e la sinistra, piegata all’indietro, su cui è seduta, è una donna, con i capelli raccolti. Sono io.
In verità non lo so, non lo posso più chiedere alla mia mamma, e neanche Livia, osservandola, ne è tanto sicura. Sono io, mio il colore dei capelli e l’ampiezza della fronte. Nuda, composta e dolente di abbandono, che raccolgo per terra me e quel che mi resta.
“Il dolore”, così l’ho intitolato. Quello che senti giù, nel profondo delle viscere, e su, a mezzo il cranio e che ti spezza con un gesto sordo.
Deve rimanere senza cornice. Lo appenderemo sulla parete del soggiorno, in naturale raccordo con il bianco e il legno di rovere e ciliegio.
In camera da letto i fiori: le fresie, le peonie, i mughetti, la mimosa, in albero, sul lago, e in vaso; la rosa bianca adagiata su due volumi rilegati in pelle marrone e bordeaux; i papaveri che si allargano ai piedi dei filari di pioppi, la roggia che scorre accanto a una sterrata di campagna lombarda, Venezia nella fuga di un canale, il ritratto di una bimba di un secolo passato.
Non so quanti sono, non li ho mai contati. Ora che l’appartamento è stato affittato la maggior parte è riposta in cantina.
Su uno dei ripiani della mia libreria, dedicati alla poesia, c’è la sua prima prova di bambina, un cartoncino telato, rettangolare, ritagliato, firmato AUGUSTA, così, tutto in maiuscolo. Una stradina, due prati verdi, una recinzione, un albero fiorito di bianco e macchie rosse di corolle. Una piccola donna in nero, davanti a una chiesetta con campanile, fronde verde cupo, sullo sfondo, e una casa con un filo su cui sono stati stesi tre panni ad asciugare. Il cielo non è di primavera.
Da bambina, era “l’irraggiungibile” questo piccolo quadro. La mia mamma alla mia età, o poco più, dipingeva così. Io riuscivo, intuitivamente, a cogliere la tridimensionalità delle cromie, a riconoscerle là dove cedevano l’intensità del loro peculiare accento per acquisirne la suggestione di un altro, ma le mie linee erano rigide e – ne ero compiutamente convinta – non avrei mai potuto tentare quell’arte, misurarmi con lei. Ricordo un pomeriggio quando, con la sensibilissima discrezione con la quale si accostava alla vita degli altri, mi propose di ritrarre, fianco a fianco, un fiore, di quelli che nascevano nell’aia del Buscofà e che lei e Jolanda appendevano a testa in giù, a seccare. Eravamo nello studio, le matite di fronte a noi, sulla scrivania.
Il suo disegno era perfetto, sembrava che anche solo a guardarli quei petali esausti, inariditi, si sarebbero sfaldati in una polvere impalpabile e colorata.
La mia mamma possedeva il raro dono della composizione e le sue nature morte rivelavano la grazia e l’eleganza della sua anima. Sotto le sue dita gli oggetti si guadagnavano il privilegio di una rinnovata esistenza, che muoveva i panneggi degli sfondi e spettinava le corolle dei fiori di seta. Glielo aveva più volte riconosciuto anche Maria Angelini, celebre pittrice pavese, che teneva i suoi corsi in quello che era stato lo studio del suo maestro, Romeo Borgognoni.
Maria Angelini, Mariola, per le frequentatrici di vecchia data, era una donnina minuta e un po’ curva, minuscola quando si alzava dalla sedia e si muoveva nelle stanze dai soffitti alti, le pareti interamente ricoperte dai quadri, nell’atelier che si apriva su un ballatoio all’ultimo piano di un palazzo su corso Mazzini, sopra i tetti rossi di Pavia.
Voleva ritrarmi, “Hai i lineamenti e i colori di una miniatura inglese”, mi diceva, ma io non posai e oggi ne provo un profondo rammarico.
Accompagnavo la mamma il pomeriggio, spesso con i libri di scuola, mi fermavo un attimo a guardare in basso, appoggiata all’esile ringhiera del ballatoio, varcavo con lei il portone massiccio di legno marrone, raggiungevo la camera dove le allieve dell’Angelini avevano già preso posto davanti ai cavalletti e ritornavo nella prima stanza, quella più ampia, di fronte al ritratto di Hayez, che emergeva dal buio, il mio preferito; davanti al pianoforte dove Franz Liszt, almeno così si diceva, aveva percorso a volo le ottave e incrociato accordi. Camminavo adagio sui listoni grezzi del parquet, indugiando sui talloni prima di poggiare pianta e punta dei piedi – il legno crocchiava – e non mi volevo far sentire mentre mi aggiravo tra il vasellame e le statuine di porcellana, i bronzi, i libri.
Il tempo, lì dentro, si era arreso al paradosso dell’immobilità, ovattata di frasi a voce bassa, pronunciate al sicuro dal piombo rosso e nero di quegli anni insanguinati, dalle proteste gridate sulle strade, dal grammelot di Dario Fo, giullare di “Mistero buffo”, che la seconda rete RAI mandò in onda nel 1977 e che suscitò cori di viva riprovazione tra le adepte della Mariola.
Ma la mia mamma ed io eravamo due ragazze e anche le più giovani allieve dell’Angelini erano già vecchie.
Bellissimo. I tuoi ricordi richiamano alla memoria storie, personaggi e luoghi, situazioni e tempi noti, che sembrano appena trascorsi. Possiamo dire …comune sentire.?…Bellissimo
Comune sentire, Mac. Grazie con tutto il mio cuore.
La tua prosa dipinge con nostalgia e amore i quadri dell’amata Maria Augusta.
Grazie di questo amorevole ricordo
Grazie, cara Franca.