Avevo otto anni circa quando scrissi la mia prima poesia.
Sulla suggestione de “L’aquilone” di Giovanni Pascoli, letta in classe dalla maestra Bordoni, che mi aveva profondamente commossa.
Era una poesia che si fondava su tre negazioni iniziali: non volevo per me grandi corti per giocare né grandi sale per mangiare né grandi camere per dormire. Chiedevo solo una piccola stanza per pensare.
In realtà la mia era una stanza molto ampia, dove prendeva posto persino un pianoforte. Ma della casa lo spazio che preferivo era lo studio, con la finestra che dava sui tetti, il parquet e alle pareti la stuoia giapponese verde erba, che con il tempo imbiondiva e ammorbidiva i mobili antichi e le stampe appese.
Scrivo poesie, non ho mai smesso, non saprei come fare altrimenti quando devo interrompere il silenzio.
E’ un inno alla poesia, a quel leggero capogiro che provo ogni volta che spalanco le braccia alla Bellezza.
Se una mattina, camminando,
ne avessi potuto scorgere il profilo,
avrei librato le parole
tra le pieghe di stagioni.
Mi venne voglia di cantare,
di cedere alla danza
le piume dei miei passi
e se mi fosse stato lecito sognare
t’avrei raccolto a mazzi
pensieri variopinti.
La luna sussultò
funamboli neofiti.
Lo sguardo dei miei anni dipanò tra i lemmi,
i raziocini,
accanto a chiose, sui teoremi,
nelle strofe di terzine.
Io che avevo tutto sopito m’inoltrai,
forte del canto,
nelle curve di una mano,
della fronte di mio figlio
che apre e libera il mattino.
Io che non avevo appreso dagli aedi il cominciare
mi ritrovai colori
ricamare di poeti notti intere.
Spalancai sulle rotte dei filosofi
orizzonti di fraseggi siderali.
Omero mi cercò, Saffo mi perse;
Saba mi diede il gesto, Lorca il silenzio.
Spazi ondulati, arche di luce,
parabole di storia, terre emerse.
Sulle mappe dei miei giorni
echeggiarono bagliori di lontane percezioni.
Le parole dei cantori.
Roma, 27 febbraio 2002
Se una mattina, camminando,
ne avessi potuto scorgere il profilo,
avrei librato le parole
tra le pieghe di stagioni.
Mi venne voglia di cantare,
di cedere alla danza
le piume dei miei passi
e se mi fosse stato lecito sognare
t’avrei raccolto a mazzi
pensieri variopinti.
La luna sussultò
funamboli neofiti.
Lo sguardo dei miei anni dipanò tra i lemmi,
i raziocini,
accanto a chiose, sui teoremi,
nelle strofe di terzine.
Io che avevo tutto sopito m’inoltrai,
forte del canto,
nelle curve di una mano,
della fronte di mio figlio
che apre e libera il mattino.
Io che non avevo appreso dagli aedi il cominciare
mi ritrovai colori
ricamare di poeti notti intere.
Spalancai sulle rotte dei filosofi
orizzonti di fraseggi siderali.
Omero mi cercò, Saffo mi perse;
Saba mi diede il gesto, Lorca il silenzio.
Spazi ondulati, arche di luce,
parabole di storia, terre emerse.
Sulle mappe dei miei giorni
echeggiarono bagliori di lontane percezioni.
Le parole dei cantori.
Roma, 27 febbraio 2002
Ai sensi delle leggi vigenti in tema di copyright, è vietata la riproduzione parziale o totale dei testi, audio e immagini, contenuti in questo sito senza autorizzazione di Maria Paola Langerano. Posizione SIAE 293574
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