Papà odiava il campeggio

Palinuro 2

Mio padre, ne avremmo avuto inequivocabile contezza solo qualche settimana più tardi, avrebbe odiato il campeggio per la sua intera esistenza ma quel giorno ancora non poteva saperlo e si fece convincere da Nino a trascorrere una vacanza insieme in tenda, a Palinuro. Lo seguì all’interno di quello che a me dovette sembrare, fin dalla prima rapida occhiata, il sancta sanctorum degli iniziati alle beatitudini della vita all’aria aperta, il negozio più fornito di Torino. E a mano a mano che si aggirava tra gli scaffali ricolmi dei più svariati articoli specializzati, con l’attenzione e la scrupolosa cura del dettaglio che lo contraddistingueva e impiegava in ogni attività, incoraggiato dal consenso del suo “duca”, veterano del camping, scelse una tenda di due stanze con veranda, arancione, anzi, giallo sole, come il mio pennarello Carioca preferito, un tavolino pieghevole con quattro seggiole, un fornello a gas, una lampada a spirito e un’intera batteria di utensili, suppellettili, piatti, stoviglie, pentole e quant’altro.

Si partì da Voghera che era ancora notte, nella 1100 stracarica di bagagli, Mauri ed io nel tepore dei nostri pigiamini, accoccolati sul sedile posteriore, ognuno a bordo della propria automobile, con la copertina, dietro il finestrino, a salutarci sorridenti, prima di lasciarci nuovamente ghermire da un sonno spesso, lungo 700 chilometri.

Mauri aveva un anno più di me, sette, quell’estate, ed era il fratello minore di Nicola, Nicoccio, come lo chiamavo io, un adolescente di quindici, che del tutto incidentalmente sembrava accorgersi di noi, com’è naturale, del resto, a quell’età. Era grande, discuteva di politica libri, dischi di gruppi sconosciuti con il suo coetaneo Giorgio, figlio di Flora e Paolo, amici di famiglia e loro vicini di casa torinesi, che si erano uniti a noi in quella vacanza e, secondo il nostro punto di vista, era certo che si stava annoiando a morte. Non giocavano mai!

La mamma di Mauri e Nicoccio era Jolanda, la cugina preferita della mia. Aveva sposato Nino e si era trasferita dal Buscofà, una frazione di Rivanazzano Terme, nell’Oltrepò pavese, a Torino. Durante gli anni della guerra, aveva vissuto qualche tempo a Voghera, da mia nonna Gina che la amava come una figlia. Mia mamma, allora bambina, era un po’ gelosa, mi raccontò, di quella loro complicità, delle confidenze tra giovani donne, così le interpretava, dalle quali si sentiva esclusa.

Adoravo Jolanda e Nino, gli unici parenti della mamma che frequentavamo con una certa regolarità. Era una festa partire per andarli a trovare a Torino, nel fine-settimana.

Ricordo che un anno, appena patentata, guidai io l’Ami 8, rispettando scrupolosamente tutti i limiti di velocità e impiegando un tempo interminabile per percorrere i 100 chilometri che ci separavano.

Mauri era il mio ideale compagno di giochi, ironico, mite, sempre protettivo nei miei confronti. Non litigammo mai, per tutta la nostra infanzia, quando eravamo inseparabili e correvamo lungo la riva e giocavamo a pallone sull’aia, a Buscofà.

Quell’anno, a Palinuro, per la prima volta insieme, dal mattino alla sera.

Papà, che non sapeva nuotare e aveva paura dell’acqua, si risolse a piantare la tenda sulla spiaggia, un giusto compromesso al riparo dalle fiamme di ipotetici incendi in pineta e dagli agguati occulti del mare notturno. Il caldo era feroce, non concedeva requie.

Palinuro è l’odore della resina che sguscia sotto l’aria gravida e calda; un bastoncino levigato dal mare con l’approssimativa morfologia di un cagnolino, Bobby; il cuore in gola di notte, nella pineta, a scontare la penitenza della Peppa Tencia, quando tutto è buio e inghiotte il respiro; una camicetta di batista a protezione dai morsi del sole, sulla mia pelle candida che si sfalda; Mauri ed io con la mia mamma, a fare sempre il bagno; una baracca, lo spaccio di generi alimentari al riparo dal sole, in pineta, a comprare peperoni e mio padre, rosso come un gambero; fotografie in bianco e nero, eterne pose contro il sole, mamma e papà, la zia Maria che è solo una ragazza, Nino, Yolanda, Maurizio e Nico e Flora, Paolo e Giorgio che ci avviluppano nell’interminabile parlare di politica.

Al ritorno dal mare, ci trattenemmo qualche giorno dai nonni, a Tricarico e sulla strada per Voghera, facemmo sosta a Roma, dove papà mi avrebbe condotta a visitare gli scavi archeologici che fin da allora mi appassionavano.

Arrivammo al crepuscolo davanti al Colosseo, ormai chiuso ai turisti. Insistetti – e quella fu la prima e ultima volta che capitò – per fermarci, anche solo un attimo, pur sapendo che l’indomani gli avremmo dedicato una visita accurata.

Papà cedette, parcheggiò lungo il marciapiede di fronte, tra due vigili urbani, giusto il tempo di superare il primo anello di arcate e gettare uno sguardo sul labirinto delle vestigia dei sotterranei.

Una manciata di minuti in tutto. La nostra automobile era sparita, inghiottita nel nulla. Nessuna traccia dei due vigili urbani. Rubata. Con tutto il suo prezioso carico di abiti, che erano bastati per un mese intero di vacanza, tenda, suppellettili da campeggio e una bambolina con l’impermeabile e il cagnolino al guinzaglio, in una scatola di cartone che riproduceva un’anticamera, con tanto di attaccapanni, che la mamma mi aveva comprato a Potenza.

Ritornammo a casa di notte, in treno. Un padre missionario, nostro compagno di viaggio, ci prestò una coperta: avevo addosso una canottiera a righe e i bermuda.

Quando arrivammo a Voghera ebbi netta l’impressione che l’estate fosse irrimediabilmente finita.

Di lì a pochi giorni ci saremmo trasferiti a Pavia. Sarebbe incominciata la scuola in una nuova scuola, si sarebbero moltiplicate, velocissime le stagioni e io avrei dovuto trasferirmi a Roma, sposarmi e avere una bimba che stava per compiere tre anni per trascorrere un’altra vacanza in tenda, ancora una volta per l’ultima volta.

 

 

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