Sono le impressioni più fugaci, il colpo d’occhio, la rivelazione del dettaglio del momento, nell’istante in cui è vissuto e nelle immagini che ho catturato.

Il Tempio Malatestiano

Era un giorno grigio di pioggia, a Rimini, decisamente incompatibile con il furore estivo della riviera romagnola. Il Tempio Malatestiano è la Misura interpretata nel tratto di chi l’ha progettato.

Rimini. Il Tempio Malatestiano.

E’ quasi ora di chiusura. Siamo in nove.

Piero della Francesca è gigantesco.

Sulla parete di fondo, solenne, un drappo viola.

E’ seta, pesante fardello, è il lutto della Quaresima.

Sotto c’è Giotto e il suo Cristo. Il tempio è pagano e solenne ma la grave morte è Gesù.

 

A Rimini, quattro anni fa. C’era il vento e il mare a lunghe onde.

Ho riconosciuto subito il nostro albergo dalla vetrata sulla spiaggia, appena arrivata, lunedì sera.

Ciao, Mac, ti saluto ovunque.

27 marzo 2007

Spalato

Sono stata alla corte dell’imperatore Diocleziano, nella città che lo rivela ovunque, in un giorno di fuga dal mare dell’estate, sulla costa croata.

Oggi a Split.

Il pensiero del palazzo di Diocleziano occhieggia dai libri di storia dell’arte e archeologia che ho avuto per tanto tempo tra le mani.

Strade veloci, palazzoni, architettura socialista fino a lambire le mura del palazzo.

Poi il mercato e entriamo alla corte dell’imperatore.

Il peristilio, dopo tanti anni di sole immagini, mi sembra più piccolo. Alla sua sinistra il mausoleo di Diocleziano, con l’elegante colonnato perimetrale, trasformato in cattedrale.

L’interno è un delirio di stili abbarbicati gli uni sugli altri. Uno dei due architetti del palazzo, Philotas, ha lasciato la sua firma su una delle colonne all’ingresso della sacrestia.

Split è una continua sorpresa. Il palazzo procede di quinta in quinta, su piani che si intersecano e sovrappongono ad altri di secoli diversi e si rivela ovunque, nelle strade strette, nella planimetria di una piazza, in quel che resta delle quarantadue arcate sul lungomare, nelle porte delle mura di cinta, nelle torri quadrangolari che, talvolta, si indovinano appena, nei locali sotterranei, ora piccolo bazar, nelle murature ad opus vittatum.

Il lungomare è interpretato da un largo pavimento a lastre quadrate, scivolosissimo perché da qualche istante sta piovigginando, e da una struttura a pennoni metallici tinti di bianco

23 luglio 2008

Medgugorje

Stavamo trascorrendo l’estate al mare, a Zaostrog, Livia aveva sei anni, e un giorno decidemmo di inoltrarci nell’interno, per visitare Medgugorje. Ma del sentiero che conduce al luogo delle apparizioni nessuna traccia…

Partiamo per Medgugorje.

La Bosnia, dopo la frontiera, è un altro paesaggio, lontano mille miglia dalla spensieratezza della costa.

Si susseguono abitazioni senza un disegno, un’identità o una riconoscibilità ambientale.

Le vecchie case di pietra sono state rinnegate. Arriviamo a Medgugorje preceduta da grandi magazzini, negozi, negozietti, baracchini che smerciano chilometri di rosari di tutte le fogge. In mezzo la parrocchia all’interno di un’area dove si alternano spazi di riunione e di preghiera; schiamazzo e raccoglimento.

La parrocchia è scabra, essenziale. Ci fermiamo nel settore di destra, davanti alla statua di Maria.

E’ bello star qui in mezzo al fiotto caldo. Ma Medgugorje è fuori, sulla collina della prima apparizione e là ci dirigiamo.

Le indicazioni sono scarse e non riusciamo ad individuare il sentiero che, come scritto sulla guida che abbiamo acquistato, è in realtà una pietraia erta e poco agevole, tracciata dai piedi dei pellegrini. Temiamo che Livia non ce la faccia anche perché non troviamo alcuna informazione circa la lunghezza del percorso.

Tentiamo ancora, niente da fare.

Livia ed io ci siamo incamminate sulla strada che si inerpica sino alla croce che domina il monte ma del sentiero delle apparizioni nessuna traccia.

Ci lasciamo alle spalle Medgugorje.

Peccato. Livia è affranta. E anche noi. Siamo arrivati fino a qui, ci siamo arrivati senza sapere nulla e ce ne andiamo consapevoli di un’omissione.

Partiamo per Mostar. E’ a ventiquattro chilometri, un’altra decisione all’impronta.

Il paesaggio torna disabitato, la montagna è di nuovo padrona dello spazio. E il vento.

Per i tornanti si ha l’impressione di una prospettiva appiattita sul fronte dei rilievi, con vie di fuga alle estremità.

Mostar ci accoglie con file di palazzoni di periferia sullo sfondo e con i segni del mortaio sulle facciate delle villette inizi ‘900, sotto un viale di vecchi platani.

Vento battente sulla città vecchia e i suoi minareti. Ne contiamo cinque, in un colpo d’occhio, lungo la Neretva.

Per il resto artificio e souvenirs. Oriente nelle pietanze offerte dai locali, in borsette e tappeti, sui copricapo dei negozianti.

La guerra nel macabro gusto di penne ricavate dai proiettili e nella candida pietra del ponte ricostruito.

E’ quasi sera, abbiamo fame e dobbiamo far benzina. Arduo l’addio a Mostar con una segnaletica ambigua che per due volte ci inganna circa la direzione da seguire.

Perché ora è deciso, si tenta il tutto per tutto a Medgugorje, prima del buio.

Riusciamo ad imboccare la strada che abbiamo seguito all’arrivo. E il resto viene da sé.

A Medgugorje è il tramonto. Sono le venti e dieci.

 Il sentiero, pietre rossicce in mezzo a una pietraia grigia e agli arbusti.

Ci appare subito la croce blu, luogo degli appuntamenti settimanali di Maria con i veggenti.

Si scivola, bisogna fare attenzione, non c’è un sentiero battuto ma ovunque roccia.

Si sale, si sale e tremo per il ritorno.

Non c’è abbastanza luce e il cielo è striato di nuvole scure. Ma è bellissimo e siamo solo noi e la pietra e quel che riusciamo a immaginare del mistero.

In una ventina di minuti siamo al luogo della prima apparizione, riconoscibile da una croce e da una statua di Maria.

C’è solo un uomo in compagnia delle due figlie. Poi sopraggiunge una donna con due ragazze.

Un crocifisso e numerosi ex-voto.

Questo è Medgugorje e Livia è felice e anche noi lo siamo.

Scendere è più difficile.

22 luglio 2008

i girasoli e il poeta

Un altro luglio al mare, nella terra di Giacomo Leopardi, quando ovunque, nei campi appena dietro la spiaggia, trionfano i girasoli. E Recanati, e un viaggio di tanti anni prima, io bambina, e la voce di mia mamma che mi raccontava la Bellezza.

La campagna dilaga giallo fino ai piedi dei colli intorno come tanti castelli.

Campi e girasoli all’apice della luce, scroscio di giovinezza al cospetto di Loreto, Recanati, Osimo.

Qui non c’è il mare, è a soli quattro chilometri ma se ne avverte la distanza siderale.

Incolmabile lo iato tra la fatica della terra e la spiaggia che si inebetisce di estate, pur mediato dai casali della bonifica, convertiti in residenze agrituristiche.

Qui l’Adriatico non riesce a liberarsi dalla vulgata della riviera romagnola con i suoi stabilimenti a ripetizione, piatti contro la linea retta della battigia, e i riti collettivi del divertimento assicurato.

Malgrado il promontorio del Conero.

Giovedì viaggiamo verso l’interno.

A Loreto Livia compra un regalo tutto per me: un cestino di vimini con due gattini morbidissimi, che lei ha scelto con cura, camminando in mezzo alle vetrine che conducono alla basilica della Madonna nera.

Davanti alla sua statua votiva stringo a me la mia bambina e le consacro la mia vita.

Fuori, sulla piazza, bancarelle e vecchine che mettono in mostra simulacri popolari della fede, cianfrusaglie in batteria.

A Recanati torno dopo tanti anni, con immagini e voci accanto ai miei passi.

La Bambi e io scendiamo davanti alla porta urbica mentre Mac parte alla ricerca di un parcheggio.

Lo chiamo al telefono, ho dimenticato qualcosa in auto. Poi chiamo la mamma e risponde papà, lo scambio per Mac, perché la comunicazione è disturbata.

Gli racconto che sto per entrare a Recanati – ti ricordi? – e la sua voce è morbida, non ha fretta di chiudere. Livia si è accorta che mi sono commossa dietro agli occhiali da sole.

Ricordo tutto, il colle e l’infinito, i vicoli, la casa di Giacomo. E Nerina. Livia fotografa l’oleandro di fronte a casa sua.

La voce di Silvia sale sui bastioni del palazzo, si mescola a quella di mia madre che mi parla con i versi del suo poeta e mi fa conoscere le sue stanze, le giornate ostinate di solitudine, la giovinezza, là fuori, che gli tende un agguato.

Mi ricordo tutto, mamma.

L’ultima cena al Bahari, al mare, il dieci luglio..

 

C’è un tramonto

un largo adagio

cuna del desiderio

del ritorno.

 

4-11 luglio 2010

Orvinio

A Orvinio è bello stare, d’inverno, quando il silenzio è intatto e ogni gesto si profila nella sua necessità.

Orvinio è d’inverno e di valle, larga ai piedi della neve del Velino. E’ il camino e la certezza di cose da fare con le mani, da scrivere, da leggere. A Orvinio la giornata segue la curva della luce, comincia a est e si chiude a ovest, ci lascia insieme come ci ha trovati. Siamo diversi quando non c’è rumore, riconosciamo la necessità del gesto quotidiano.

3 gennaio 2011

Ponza e Ventotene

Dalla barca a vela. In una giornata che non grida all’estate, il 4 di luglio. Ponza agonizza sotto la cenere del cielo.

Il gigante agonizza. Solleva il petto. Paleolitico. Coda erpetomorfa, livreata di vipera africana.

Accecato dal faro, unico, l’occhio.

Sotto un lieve fronte di nubi lasciamo Ventotene il quattro di luglio.

Ventotene di tufo tagliato, di bitta romana, di rampe incrociate, di piazza fatta di niente, impossibile da prendere in foto, perché sono i bambini a muovere l’aria, cortile del sud, isolano di fiori schietti e conversari fuori dall’uscio.

4 luglio 2013

La fucilazione del tre di maggio.

“La fucilazione del 3 di maggio” Goya, la luce, il buio, la massa uniforme dei fucilieri francesi, il ribelle che guarda negli occhi la morte.

Mani a coprire occhi e capi chini; mani spalancate del ribelle, attonite, nello scorcio che resta alla vita, un istante appena, prima della fucilazione; mani raggrumate in un pugno di rabbia; mani inginocchiate sulla strage, muta la preghiera; mani del morto, in primo piano, che abbraccia il ventre della terra. E una lampada quadrata, ai piedi del plotone di esecuzione, che squarcia di luce chi sarà squarciato di fuoco. Luce bianca che guizza negli sguardi che fissano negli occhi la morte.

E’ la fucilazione di coloro che si sono ribellati, il 2 di maggio, all’esercito francese.

E’ una scena notturna, ambientata vicino al Palazzo Reale. Sullo sfondo si distingue l’antica Puerta de la Vega e la Torre di Santa Maria la Reale dell’Almudena e di Santa Cruz.

I caduti appartengono alla terra.

E’ bianca Libertà

7 dicembre 2014

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