Il giunco del Nilo.

Senza titolo

30 dicembre 2023. L’autista accosta il bus davanti al National Papyrus Center, in Sphinx Street, a Giza, giusto per farci scendere. Il traffico è quello consueto di ogni ora del giorno, qui al Cairo, dove l’aria è una cortina di gas di scarico e le automobili, le motorette, i bus turistici, i minivan con le portiere aperte dei taxi collettivi sfidano la sorte, intrecciando traiettorie in sorpassi temerari, sovvertendo persino la direzione di marcia, imboccando contromano le corsie di percorrenza.

Siamo venuti a conoscere il papiro, il Cyperus papyrus, per l’esattezza, il giunco del Nilo, la pianta di cui nell’antichità gli Egizi erano unici produttori ed esportatori. Sulle pareti delle sale, fogli incorniciati di dimensioni differenti, piramidi, ritratti di Nefertiti, maschere funerarie di Tutankhamon, Sfingi, riti e cerimoniali sacri, Iside, Osiride, Anubi, Horus, volte stellate… Colori accesi, maldestre riproduzioni di disegni e rilievi che non si accordano alla raffinatezza artistica degli originali. Nessuno di noi comprerà nulla, presumo, quanto a me, mi piacerebbe portare a casa un blocco di fogli vergini, ma non oso chiederlo, sarebbe poco garbato.

Mohamed è l’assistente agli acquisti che è stato assegnato al nostro gruppo e che procederà all’illustrazione delle fasi di lavorazione della carta, ricavata dal papiro. Taglia il fusto dalla sezione triangolare, ne scarta la parte esterna, mostra le strisce sottilissime ricavate dal midollo, le philyrae – le migliori quelle estratte dal centro, poi via via le altree lasciate a bagno nell’acqua del Nilo, le dispone ortogonalmente su una tavola, le une accanto alle altre, le pressa per eliminare l’eccesso di umidità e favorire l’aderenza degli elementi.

Lo osservo mentre sfoglio idealmente le pagine del XIII libro della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (11 e seguenti), dedicato agli alberi esotici. Mi scorrono davanti agli occhi le sue parole che raccontano i dettagli dell’operazione, fanno cenno all’azione collante del limo del Nilo, al taglio delle parti eccedenti, all’essiccazione al sole, all’unione dei fogli così ottenuti (le plagulae), “in ordine decrescente di qualità fino ad arrivare ai più scadenti. Un rotolo (volumen, in latino, biblos, tomos, in greco, arrotolato intorno ad un bastoncino, lo scapus, n.d.r.) non ne contiene mai più di venti” anche se, in realtà, sappiamo che, su ordinazione, si giunse a comporne alcuni incollandone addirittura cinquanta.

Mohamed è piuttosto sbrigativo, a dire il vero, abbandona la didattica e si avvia rapidamente alla fase successiva. Le sale d’esposizione sono botteghe di un bazar nelle quali ci aggiriamo, debitamente informati degli sconti da applicare su alcuni pezzi.

Plinio classificava le qualità della carta in primis dalla misura della larghezza o, meglio, dall’altezza dei fogli: la migliore raggiungeva le 13 dita, 24,3 centimetri, la peggiore 6, 11,09 centimetri. Si trattava della cosiddetta emporitica, secondo la definizione dell’autore latino, in quanto utilizzata esclusivamente per imballare mercanzie e non per scrivere. Gli ulteriori parametri di valutazione interessavano la sottigliezza, la consistenza, la bianchezza e, infine, la levigatezza. Con la battitura a martello, una zanna di animale o una conchiglia si procedeva a spianare le asperità del papiro per consentire al calamo di vergare senza inciampi il testo. Recto era la facciata interna del rotolo, quella che accoglieva la scrittura sulle strisce che procedevano nel senso della lunghezza, verso quella esterna. La carta di papiro era un articolo assai richiesto e caro, Roma ne impose una fornitura standard e regolare, e persino in Egitto si tendeva a ricorrere, talvolta, ad altri supporti scrittori, come gli ostrakon, i cocci di stoviglie di terracotta, o a riutilizzare volumi ormai vetusti, scrivendo anche sul retro.

Sulle sponde, nelle zone paludose del Delta, “negli acquitrini d’Egitto o nei pantani lasciati dopo le inondazioni ove le acque stagnano in pozze profonde non più di due cubiti” (Plinio, ib.) oggi è quasi scomparso il papiro. Esile sul suo alto fusto “a sezione triangolare non più lungo di dieci cubiti, che si assottiglia verso l’alto e termina, simile ad un tirso, con una infiorescenza priva di semi e senza altro uso se non quello di farne corone per le statue degli dei. (Plinio, ib.), il papiro è stato generoso con gli antichi abitanti della terra che si è consacrata al Nilo.

Ha dispensato cibo a buon mercato: “(gli Egiziani) tagliano e mettono da parte per altri usi la sua parte superiore; di quella inferiore, per circa un cubito di lunghezza, si cibano e fanno commercio. Chi desidera fare il migliore uso del papiro lo abbrustolisce entro un forno rovente e se lo mangia così”. (Erodoto Storie, II, 92), oppure ne masticano la polpa, “cruda o cotta, ingoiandone soltanto il succo” (Plinio, ib.). Ha elargito combustibile e sostanze curative, ha intrecciato le sue fibre per creare cordami, stuoie, materassi, vesti, calzature, imbarcazioni di piccole dimensioni, vele, stuoie. Sui fogli di carta ha raccolto la voce della sua terra, raccontando l’origine del cosmo e dell’uomo, i miti, le credenze popolari, la religione del palazzo, i fasti dei potenti, il mondo dei vivi e quello dei morti, ha perpetrato in eterno formule magiche, favole d’amore, liriche, opere narrative, testi sapienziali.

Il giunco del Nilo, ampiamente usato in Egitto a partire dal III millennio a. C., tenne testa alla diffusione della pergamena, la cartapecora, inventata, forse, nella città di Pergamo da cui prese il nome, ma fu costretto a cedere il passo di fronte alla rapida diffusione della più economica carta di stracci di produzione araba.

Non comprerò quadri, esco dal National Papyrus Center, raggiungo Mac che sta chiacchierando sul marciapiede, accanto al pullman. In mezzo al caos della strada un’Ape taxi schizza via contromano, per sfuggire ad una probabile contravvenzione, ed arresta la sua paradossale fuga addosso ad un’automobile in marcia. Quattro frasi concitate tra i due conducenti, un abbozzo di alterco.

Tutto si ricompone, ognuno riprende la sua strada.

Io penso al Nilo, al navigare adagio, contro corrente, da Luxor ad Assuan, d’inverno, sotto la parabola del sole, dalle 6 e mezza alle 17.00. E anche se siamo in tanti e le motonavi ci affiancano, come sulle corsie di una superstrada, e suonano con insistenza i corni da barca e i venditori di tovaglie, corsari di scafi a motore, lanciano richiami e involti di stoffa ai turisti che tentano di abbordare, sulle sue rive il grande fiume ha imposto il silenzio alle palme, ai banani, alle canne da zucchero, agli animali accovacciati sull’erba, ai contadini che ripetono identici lo stesso gesto da mille e mille anni.

A quell’uomo in galabeja cinerina, che proprio adesso si è inginocchiato a est nella preghiera.

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Paola
9 mesi fa

Un perfetto mix di cultura, storia e realtà caotica del Cairo. Mi ha ricordato un viaggio ormai lontano e le immagini del magico fluire di quel sacro fiume. Raccontaci ancora dell’Egitto come solo tu sai fare…

Ettore
9 mesi fa

Una spiegazione come la tua avrebbe sicuramente reso molto più interessante la visita al National Papirus Center, purtroppo rivelatasi invece decisamente commerciale.

Enza
9 mesi fa

La prima volta che ti ho sentita parlare, ho capito immediatamente che mi trovavo di fronte ad una persona dalla quale avrei sicuramente potuto imparare qualcosa. Righe bellissime, piene di ricordi e sono felice che lì con te, con voi, c’ero anch’io. Un abbraccio, Enza.