“Sì, doveva essere così il cielo, la notte prima dell’uccisione di Cesare”.
Sto per risalire in automobile, sulla strada del mercato rionale, in una traversa di via Tiburtina, vicino ai palazzi della società in cui lavora mio padre, nostro domicilio da quando ci siamo trasferiti a Roma. Ho vent’anni, sono con alcuni ragazzi che abitano in quel comprensorio.
Nel cielo un rigurgito di orrore, a stento soffocato, un inespresso sotteso, su una tavola grigio cupo, a squarci repentini di azzurro che sta per essere tenebra.
La notte del 14 marzo del 44 a. C. segni celesti e prodigiosi, apparizioni, rumori sinistri percorsero e turbarono le strade di Roma.
Risuonarono le aste di Marte nella Regia, l’edificio confinante con la Casa delle Vestali, accanto alla via Sacra, nella parte orientale del Foro, dimora ufficiale del Pontifex Maximus e, dunque, di Cesare, che ricopriva allora quella carica.
“A molti apparvero uomini infuocati che si slanciavano gli uni contro gli altri” (Plutarco, Vita di Cesare, 63). La mano del servo di un soldato, inaspettatamente, avvampò di una fiamma robusta che, così come era comparsa, svanì nel nulla, lasciandola illesa.
Ciò che stava per compiersi era segnato dall’imperscrutabile disegno del fato e ne incominciava a svelare l’arcano.
Venne la notte. La luna splendeva nel cielo. All’improvviso un gran frastuono: si spalancarono le porte e le finestre della camera da letto in cui Cesare riposava accanto alla moglie, Calpurnia, che, profondamente addormentata, gemeva nel sonno a causa della terribile visione che aveva turbato i suoi sogni: stava piangendo e stringeva tra le braccia il corpo del marito sgozzato.
Lo stesso Cesare, che stava compiendo sacrifici, non trovò il cuore della vittima. Presagio di morte, gli rivelò l’aruspice, e il temerario condottiero reagì ridendo: gli era accaduto già una volta, durante la campagna di Spagna contro Pompeo, e nulla gli era occorso.
Un indovino, poi, gli aveva predetto di guardarsi dalle Idi di marzo, e lui lo incontrò, proprio quel giorno, mentre era in procinto di entrare nella Curia di Pompeo, dove si sarebbe tenuta la riunione del Senato, e lo irrise, perché le Idi erano giunte. Ma non erano ancora passate, gli fu risposto.
Stasera, il cielo sopra il mercato di periferia è quello che Cesare aveva guardato il 14 marzo del 44 a. C., pago dei successi conseguiti e dell’appoggio incondizionato dei Romani, ignaro che di lì a poche ore sarebbe caduto esanime, trafitto da 23 pugnalate, ai piedi della statua del suo avversario, Pompeo, testimone del tradimento consumato e dell’agonia, che quel giorno avrebbe gustato la sua vendetta.
Caio Giulio Cesare, pontefice massimo, tribuno militare, edile curule, pretore, propretore, imperator, tre volte console, proconsole, dittatore a vita, trionfatore in Spagna, Gallia Cisalpina e Transalpina, Illirico, Britannia, Ponto, Egitto.
La mattina del 15 marzo, venne accerchiato come un nemico, attorniato come una bestia braccata dai cacciatori. Si arrampicarono le grida di quell’orgia di sangue fin sotto le volte della curia.
Mi deve essere sfuggita, appena accennata, qualche parola, e mi sento addosso i loro sguardi ironici, come se fossi pazza. Siamo irrimediabilmente distanti. Mi mancano i miei compagni di classe, “il barrio”, la complicità, le elucubrazioni, al margine delle risate.
Non ho nulla da dire, stasera, e ho bisogno di ricordarmi chi ero, di Plutarco e di quella notte di prodigi.
Non ho ancora amici, incomincerò in autunno il secondo anno di università e tutto sarà diverso. Amo Roma, sin dal primo momento, a sei anni, al crepuscolo, quando mi è apparsa onnipotente. Ineguagliabile, discutibile, pigra, frenetica, magnifica, plebea, generosa, avida, sacra e profana. Dispensatrice di una luce che non ho conosciuto altrove.
Ho due esami del primo anno da preparare: storia del teatro e della drammaturgia antica e geografia, che dovrò sostenere all’università di Pavia. Poi diventerò ufficialmente una delle migliaia di studenti che salgono e scendono le scale della Sapienza, si assiepano nelle aule, camminano in mezzo a una babele di idiomi tra gli edifici razionalistici progettati da Marcello Piacentini. Così diversi da quelli dell’Alma Ticinensis Universitas, dai suoi cortili, a doppio ordine di archi.
A primavera, certe domeniche, la Cecilia ed io, lasciate le biciclette, andavamo a passeggiare in quei chiostri raccolti nel silenzio, specie in quello con il pozzo centrale, il nostro preferito, e in quello drappeggiato da una pianta di glicine in cascata.
Non ho ancora amici. Nelle pause di studio scendo in cortile e cammino attorno al comprensorio, in mezzo ai ragazzi che chiacchierano e non mi conoscono e mi guardano mentre percorro il periplo per allentare la tensione. Curiosi e vagamente ironici, a poco a poco, si abituano alle mie passeggiate in solitaria, e mi sorridono.
La prima estate romana trascorre così, dopo gli ultimi due esami pavesi: una sospensione di tempo in attesa dell’inizio di un nuovo corso, il secondo anno di Lettere Classiche con indirizzo archeologico, nella capitale, dove basta uscire di casa per impossessarsi di tutto e non essere mai sazi. E io infilerò le mani nelle viscere di questa città.
C’è un sacco di gente sulla scala, nell’atrio. Cerco l’aula 5. Mi guardo in giro, nessuna indicazione, chiedo. “Non sei di Roma! Devi salire al primo piano”. Su saremo una trentina. Prendo posto. Silenzio, incomincia la lezione.