“Uccidere chi ha ucciso è un castigo senza confronto maggiore del delitto stesso. L’assassinio legale è incomparabilmente più orrendo dell’assassinio brigantesco. Chi è assalito dai briganti, chi è sgozzato di notte, in un bosco, o altrimenti, senza dubbio spera ancora di potersi salvare fino all’ultimo momento … Conducete un soldato, durante il combattimento, proprio davanti a un cannone, collocatelo lì e tirategli addosso: continuerà a sperare; ma leggete a questo stesso soldato la sentenza che lo condanna con certezza, ed impazzirà o si metterà a piangere. Chi ha detto che la natura umana è in grado di sopportare questo senza impazzire?”
Fëdor Dostoevskij, “L’idiota”, secondo capitolo.
Dostoevskij stesso, arrestato e rinchiuso nella fortezza di San Pietro e Paolo, il 23 aprile del 1849, condannato a morte per le sue idee politiche e sociali, il 16 novembre, all’alba del 19 dicembre, condotto di fronte alle armi spianate del plotone d’esecuzione, scopre che la sua pena è stata commutata in quattro anni di lavori forzati e in un periodo imprecisato di servizio come soldato semplice in Siberia. Il colpo di scena, la tragica farsa della fucilazione che un ufficiale si è divertito ad inscenare, a dispetto di ciò che lo zar Nicola I aveva già, da qualche settimana, deciso. Uno dei condannati perde il senno, un altro incanutisce. L’epilessia di cui Dostoevskij aveva sofferto sin da ragazzo, intensifica i suoi attacchi.
Da questa atroce esperienza le parole pronunciate dal principe Myškin, da incidere nella coscienza di ogni essere umano. “Perché un affronto simile, mostruoso, inutile, vano? Forse esiste un uomo al quale hanno letta la sentenza, hanno lasciato il tempo di torturarsi, e poi hanno detto: ”Va, sei graziato”. Ecco un uomo simile forse potrebbe raccontarlo. Di questo strazio e di questo orrore ha parlato anche Cristo. No, non è lecito agire così con un uomo!”
Contro la pena di morte. Ovunque e sempre.
Secondo i dati diffusi da Amnesty International, più di due terzi di paesi al mondo l’ha abolita e nel 2020 sono state eseguite 483 sentenze capitali in 18 stati, la maggior parte in Cina, che occupa saldamente il primo posto di questa macabra classifica, e poi in Iran, Egitto, Iraq e Arabia Saudita.
483 contro le 657 dell’anno precedente.
Dal 1973 negli Stati Uniti sono stati rilasciati 167 prigionieri, a seguito di ulteriori prove emerse dopo anni di ingiusta reclusione nel braccio della morte. Perché le indagini della polizia non sono state accurate, perché i presunti colpevoli non hanno potuto permettersi un’assistenza legale decente, perché i testimoni che hanno deposto si sono dimostrati inaffidabili, perché è stato accuratamente messo da parte ogni dubbio di innocenza, prima di emettere la sentenza definitiva. Perché Uomo non è uguale a Uomo.
La pena di morte nega qualsiasi possibilità di rieducazione del condannato, principio sancito dall’art. 27 della nostra Costituzione: “… Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.”
Il carcere non può diventare il cimitero dei vivi.
Nel 1955 veniva pubblicata in Italia un’opera straordinaria nell’attualità del suo messaggio: “Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata”. L’autore: Eugenio Perucatti, direttore del carcere di Santo Stefano dal 1952 al 1960.
Confesso di non averlo conosciuto sino all’agosto del 2013, quando trascorremmo una settimana di vacanza a Ventotene. In un giorno ambiguo di grigio e di vento approdammo all’isola di Santo Stefano per visitare il carcere.
“Questo è un luogo di dolore … un luogo di espiazione … ma soprattutto questo è un luogo di redenzione”. I tre cartelli di cui Salvatore, la nostra guida, ci parlò, che ci mostrò in foto, il simbolo della filosofia rieducativa di Perucatti.
Il carcere è un esempio di panopticon, con pianta esattamente sovrapponibile a quella del teatro San Carlo di Napoli.
Ogni passo, in quel luogo, è di pena e di roccia ostile all’attracco.
Chinammo il capo sulla salita, attenti a non inciampare in risposte sbrigative, questioni sterminate che parlano di vite macchiate di sangue. La vita, come la morte, che smette di essere un concetto da dibattere quando te la ritrovi addosso.
Quello che rimane oggi è una scenografia potente, pur sotto le mutilazioni dei vandali e dell’incuria. Un edificio, dalla planimetria coincidente con quella di un teatro, dove la rappresentazione è permanente.
Fine pena mai, pena senza fine, in vita. “La tomba dei vivi” nella definizione di Luigi Settembrini.
Novantanove celle radiali, che negli anni riducono della metà lo spazio della reclusione, e un’ora d’aria da consumare nello spicchio antistante, tra due muri.
Di qui sono passati il brigante Crocco, Sante Pollastri, Gaetano Bresci, Sandro Pertini. E nell’agosto del ’52 Eugenio Perucatti con la sua famiglia strappa due secoli sordi alla dignità dell’uomo e fa di Santo Stefano un modello di comunità di rieducazione, dove ogni detenuto ha un ruolo attivo nel processo di modernizzazione del carcere, occupandosi di opere murarie, idrauliche, fognarie, elettriche.
Perucatti è un uomo che ha fiducia nell’uomo, nella possibilità della sua salvezza morale e spirituale, al di là del più efferato dei delitti.
Il saggio “Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata” è il manifesto delle convinzioni che lo guidano nella direzione del carcere di Santo Stefano.
Verrà fermato da insinuazioni istituzionalizzate, da un’evasione organizzata ad arte che lo allontaneranno dall’isola e sprofonderanno il penitenziario in un “prima” senza redenzione.
Ascoltammo questa storia seduti per terra. Visitammo il piccolo cimitero che sembra un orto di croci di legno, in faccia a Ventotene e alle isole dell’estate, in una giornata in cui neanche l’aria ti scivolava addosso.
Un pezzo di giornalismo vero. Parole forti e chiare, scritte con penna leggera, alla Maria Paola….Molto bello. Brava!