“As-salām ‘alaikum”. “’Alaikum as- salām”, risponde qualcuno, pochi, in verità.
Saeed è appena salito sul pullman. Noi siamo ancora assonnati, un po’ infreddoliti, soprattutto perplessi per questa mattina di nebbia e vento che ci ha svegliati di buon’ora sul primo giorno dell’anno, ad Amman. E questo è il benvenuto che ci accoglie a poche ore dal nostro arrivo in Giordania, già in partenza per il Wadi – Rum.
“As-salām ‘alaikum”, la pace sia su di te!, o ”La pace sia con te!” dei Cristiani, “Shalom!” degli Ebrei, l’augurio da porgere anche a chi non si conosce, che ha il sapore di una benedizione, come quando, nel momento del commiato, ci si rivolge a chi stiamo salutando, raccomandandolo a Dio, che gli sia sempre accanto lungo la strada della vita. Addio, “God be with you”, che Dio sia con te, contratto in “good-bye”, o “Grüssgot” (grüsse dich Got), Dio ti benedica.
Addirittura già ai tempi della prima dinastia babilonese, nel XVIII sec. a. C., si invocava la protezione del dio del sole e del padre degli dei, come si legge in documento privato che si conclude con «che Shamash e Marduk ti facciano vivere”.
I friulani si accommiatano con “mandi”, di etimo discusso e tuttavia sempre ascrivibile ad una formula di benedizione, sia che lo si riconduca al regionale “m’arcomandi”, mi raccomando, che al latino “mane diu“, rimani a lungo, lunga vita, “manus dei“, mano di Dio, che Dio ti protegga o, infine, “mane deo“, rimani con Dio.
L’altra mattina, la mia cara Serena, quando ha saputo che avrei avuto intenzione di scrivere questo articolo sull’argomento, mi ha raccontato che nella sua terra, la Sicilia, suo nonno era uso salutare i suoi amici con “Sabbinirìca”, letteralmente Vostra Signoria mi benedica davanti a Dio, usato anche nelle varianti “Sabinidìca” e “Assabinidica”. Quest’ultima voce, in particolare, sembrerebbe il calco di “As-Salam alaikum wa rahmatu Llahi wa barakatuhu!”, usata dai musulmani siciliani, all’epoca dell’Emirato arabo nell’isola: “Su di voi la pace, la misericordia di Dio e la Sua benedizione”. Capita ancora di ascoltarlo. In una parola il gesto di un tempo antico.
Saluto, un termine squisitamente solidale, che reca in sé il segno della naturale inclinazione dell’uomo a vivere in comunione. E’ la prima voce che spezza il silenzio, che accorcia la distanza fisica tra gli individui, che dà timbro e accento allo sguardo che apriamo sull’altro e si traduce in un codice di gesti, dall’inchino alla stretta di mano, dall’atto di levarsi il cappello, all’abbraccio e al bacio, che dichiarano palesemente e in pochi istanti il carattere della relazione che intercorre tra le persone.
Erodoto, nel primo libro delle sue straordinarie “Storie” (I, 134), narrando dei costumi dei Persiani, scrive: “Quando due Persiani si incontrano per strada allora si può stabilire se sono di pari condizione: infatti in questo caso invece di salutarsi, si baciano sulla bocca; se però uno dei due è di condizione appena inferiore, si baciano sulle guance; se il divario di rango è notevole allora l’inferiore si getta ai piedi dell’altro e si prosterna”.
Penso ai primi uomini della notte dei tempi, ai gesti cui ricorrevano, per esempio, per abbattere le barriere della diffidenza, per rassicurare l’altro della bontà delle loro intenzioni, ed augurargli pace e benessere.
“Χαῖρε”(kàire), sii lieto, rivolgevano gli antichi Greci a chi incontravano; “Ave!”, salute a te, sta’ bene, o “Vale!”, sta’sano, i Romani. “Ave, domine!” pronunciavano i clientes all’indirizzo dei loro patrones, nell’omaggio quotidiano della salutatio matutina, in segno di devozione e rispetto.
In Oriente, in particolare nella corte persiana, la reverenza, la sottomissione, al cospetto del monarca, considerato di stirpe divina, erano enfatizzate dalla proscinesi che consisteva, come spiega il suo etimo, nel prostrarsi riverentemente, mandando un bacio al signore. Alessandro Magno, che nell’atto della proscinesi, prevista dal cerimoniale di corte, riceveva l’omaggio dei sudditi della parte orientale del suo impero, avvezzi a tale pratica, tentò, invano, di imporla anche a quelli occidentali. Ne nacque un acceso dibattito, come ci racconta Arriano, nella sua “Anabasi di Alessandro” (9, 9 – 11) nel quale emersero due posizioni inconciliabili: da un lato Anassarco era fermamente convinto che, in nome delle numerose e mirabili imprese compiute, il grande condottiero fosse degno di ogni onore, compresa la proscinesi, come avrebbero dovuto convenire i Macedoni presenti che, al contrario, risposero con un eloquente silenzio alla tesi del filosofo. Callistene, storiografo ufficiale della spedizione in Oriente e parente di Aristotele, controbattè che il sovrano meritava senz’altro tutti gli onori tributabili ad un uomo, ma non quelli riservati agli dei, ritenendo innaturale “porre gli uomini su un gradino troppo elevato con onori esagerati e d’altra parte ridurre gli dei a una sconveniente umiltà, tributando loro onori pari quelli degli uomini”. Callistene aveva dato voce al silenzio dei Macedoni presenti, l’uomo libero si era levato in mezzo al coro dell’ignavo servilismo e dell’adulazione.
Sono passati i secoli da quello storico simposio descritto da Arriano ma – e sembrerebbe davvero difficile da credere – quello stesso senso di profonda deferenza riappare, a partire dal 1800, nell’espressione di saluto più informale e democratica di tutte: ciao!
Dal tardo latino “sclavus”, schiavo, al veneto “sciao”, “sciavo” e “ciavo”, con lo stesso significato di “servo vostro”, citato ne “La locandiera” e ne “La dama prudente”, di goldoniana memoria. Eh sì, perché dal Veneto “ciao” si diffuse dapprima in tutta Italia e, successivamente, nel mondo intero.
Il nostro pullman ha raggiunto il Marriot, per imbarcare l’altra metà del gruppo: ventitre persone salgono e prendono posto.
Alcuni nemmeno salutano.