Qualche mattina fa, al mio risveglio, girovagando sonnecchiosamente tra le notizie dei quotidiani telematici, incappo in una che mi desta definitivamente. Udinetoday titola: “Gli archeologi udinesi sulle tracce di Agamennone, nuove scoperte in Grecia”. Eh già, ancora una volta Micene e la guerra di Troia e Omero.
A giugno ho ripreso in mano la trowel, compagna leale, strumento dei miei scavi a Roma e dintorni, che aveva mutato, per un breve periodo della sua travagliata esistenza, la destinazione d’uso nel giardino dei miei, sradicatrice ineluttabile di erbacce non gradite. Esposta agli insulti delle intemperie, aveva subito danni irreparabili nell’impugnatura di legno, tanto da meritare una seppur provvisoria sostituzione con un altro, di fattura differente.
Ma ritorniamo senz’altro a quanto riferito dal quotidiano friulano online: in Acaia, nella necropoli della Trapezà di Eghion, le operazioni di scavo condotte dall’università di Udine hanno portato alla luce, in una delle tombe più modeste, peraltro, tre spade del XIV sec. a. C., l’età d’oro dei palazzi di Micene, Tirinto e Pilo, appartenenti a guerrieri che presumibilmente vivevano in un insediamento sito sulle propaggini montane dell’Acaia orientale, dal quale era possibile controllare il centro di Eghion, la pianura costiera e il mare di Corinto.
La scoperta fa seguito a quelle delle precedenti campagne di scavo che hanno rinvenuto una tomba più ampia, dotata di un ricco corredo di gioielli e di manufatti in ceramica e bronzo, e un villaggio, poco più a sud della necropoli, di età pre-micenea (inizio del II millennio a. C.), nel quale quest’anno è stato identificato un edificio con megaron, la sala di rappresentanza del signore, una struttura tipica dell’architettura palaziale micenea, che si articola in tre parti: portico, anticamera e sala del trono con focolare centrale, iscritto tra quattro colonne che sostengono il tetto piano, provvisto di lucernaio per l’aria e la fuoriuscita del fumo.
La notizia riportata da Udinetoday indurrebbe ad ipotizzare che i confini del regno di Micene si estendessero oltre ai territori suoi prossimi, in Argolide e Corinzia, e comprendessero, dunque, anche la regione di Eghion, nell’Acaia orientale, dove si erano sviluppati insediamenti che Pausania ricorderà più tardi, nel II sec. d. C., nella sua opera “Periegesi della Grecia”, la prima “guida turistica” dell’antichità.
Ma soprattutto la scoperta confermerebbe quanto riportato da Omero nel cosiddetto “Catalogo delle navi”, nel secondo libro dell’Iliade, in cui vengono passati in rassegna i contingenti impegnati nella guerra, provenienti dalla Beozia, dove tradizionalmente si sarebbero imbarcati alla volta della Troade, dal Peloponneso, dalla Grecia occidentale e settentrione e dalle isole orientali.
In particolare, ai versi 569-580, riferendosi alle schiere in armi comandate da Agamennone, il poeta scrive: “Quelli che avevan Micene, città ben costruita, e l’abbondante Corinto, e il ben costruito Cleone, o che abitavano Ornea e l’amabile Aretirea, e Sicione, là dove Adrasto prima regnò, e quelli che Iperesia e l’alta Gonoessa avevano e Pellene, e abitavano intorno a Eghio, e in tutto quanto l’Eghialo, e intorno all’ampia Elice, cento navi di questi guidava il potente Agamennone, figlio d’Atreo; con lui moltissime e nobili schiere venivano; egli era vestito di bronzo abbagliante, e andava superbo, tra tutti gli eroi primeggiava, perché era il più forte, guidava moltissime schiere”.
Ancora una volta Omero, dunque, che eterna in epos la storia, narrando del re che si mise a capo della spedizione degli Achei verso Troia, per vendicare l’oltraggio subito da Menelao, suo fratello, re di Sparta, ad opera di Paride che gli aveva rapito la moglie, la donna più bella del mondo, Elena, figlia di Leda e di Zeus.
La Porta dei Leoni che si apre nel corpo delle mura in opera quadrata del XIV sec.a. C., la cittadella sulla collina, nel paesaggio scabro dell’Argolide, la pietra e la roccia hanno sempre esercitato su di me un fascino potente, acuito dalla lettura dell’Iliade omerica e degli echi delle imprese di Heinrich Schlieman di cui ero una grande ammiratrice nella mia infanzia.
Poi, all’università, preparandomi a sostenere la prima annualità dell’esame di Archeologia e Storia dell’Arte Greco-romana, con il Prof. Bacchielli, mi sono confrontata con la prospera e vivace civiltà minoica, con i suoi manufatti artistici che replicano nel loro realismo le creature della natura, ritratte nella loro plasticità, nel loro movimento. Ricordo, in particolare, un’anforetta decorata con un polpo, disegnato obliquamente, che si snoda con i suoi tentacoli sino a ricoprire la superficie panciuta.
L’arte micenea, al contrario, cristallizza in rigide forme anche i più freschi elementi floreali o marini, ispirati dal mondo minoico, svuotandoli della loro felice vitalità.
Al posto dei palazzi in cui la natura entra a far parte del progetto architettonico che si adatta ai cambiamenti di quota e si sviluppa, di conseguenza, su livelli diversi, e alle città prive di fortificazioni o, solo talvolta, di cinte murarie modeste, la cittadella micenea incute un subitaneo, amaro senso di guerra.
I miei compagni di università organizzarono un viaggio nel Peloponneso a cui, con mio grande rammarico, non partecipai, e Micene è rimasta uno dei luoghi dei miei desideri fino al 2017, quando con Mac e Livia, da Atene, l’ho raggiunta in un’automobile a noleggio.
Sarei salita sulla cittadella, avrei passato la Porta dei Leoni, visitato la tholos di Atreo e di Clitemnestra.
Ero molto emozionata. Avevamo lasciato Atene in una tersa giornata di vento, avevamo attraversato lo stretto di Corinto ed eravamo entrati nell’Argolide montuosa. Cercavo di indovinare da lontano la collina su cui sorge la cittadella, tra le alture che fanno da sfondo alla carreggiata.
Quel giorno mentre camminavo tra le sue rovine scrissi:
“Il vento batte Micene, lava il sangue di Atreo, lo strappa brano a brano dalle fenditure delle rocce, dalle commessure dell’opera quadrata, dalle nostre mani che si bagnano della storia universale del tradimento e del delitto del fratello.
Una storia che si racconta mille volte, chiusa in circolo, sotto la stretta delle mura ciclopiche.
Micene è Atreo e il suo sangue, la maschera di Agamennone, grave di assassinio, di morte cruda. E’ l’archeologia che ti toglie il sonno, che balugina oro dal ventre umido e nero della terra.
Distrutto tutto, il palazzo di Agamennone e il suo tradimento e il suo assassinio.
Sul ciglio del Peloponneso il vento dominatore”.