Amo la ceramografia. Quella attica.
La terracotta è pallida, di un salmone spento, e l’incisione sulla rotondità ingubbiata del vaso non alza mai la voce. Lo spazio è breve a raccontare una storia. Narrarla per bene, intendo, con l’arte di un aedo che canta largo e si incanta del dettaglio che fa grande il racconto, intesse pause eloquenti là dove il filo si inspessisce. Amo la ceramografia attica per l’icastica compiutezza della storia che dipana, sublime sintesi iconica dell’epos, eternatrice della sua simbologia.
Aiace e Achille giocano a dadi in una pausa della battaglia, sotto le mura di Troia. Hanno abbandonato scudi e reciproci ruoli – Achille indossa ancora l’elmo – e appoggiato le lance sulle spalle.
Exekias ce lo racconta su un’anfora conservata ai Musei Vaticani. “Quattro”, pronuncia Achille, “Tre”, Aiace. Ha vinto ancora una volta lui, il migliore, anche lontano dal campo di battaglia, in una scena che non è tratta da alcun episodio del ciclo omerico e, probabilmente, è frutto dell’immaginazione di uno dei più originali ceramografi greci. Exekias, appunto.
E’ una storia isolata dal rosso dell’anfora e della battaglia, che parla di due eroi che, solo per un attimo, hanno giocato a essere umani.