Nel 2005, al ritorno da Torre Lapillo, attraversammo le Murge. Dietro le spalle l’azzurro caraibico del Salento. E all’improvviso – Morgana che ti incanta da lontano – la sagoma magnetica di Castel del Monte. Formidabile ottagono, gemma abbagliante nel castone di una collina morbida, disegnata di verde albero.
Non avevamo il tempo per una visita, avremmo dovuto fare rientro a Roma in serata. Ma almeno arrivare sulla fronte del suo ingresso e rimanerne all’esterno, pensavo, giusto per un’occhiata.
Non ci fu consentito: dal 1996, infatti, il monumento è stato inserito dall’Unesco nella lista dei siti dichiarati patrimonio dell’umanità e non si può percorrere con mezzi privati la salita che conduce all’entrata; si devono parcheggiare le automobili in un’area attrezzata da cui parte una navetta che trasporta i turisti.
Ce ne andammo e io rimasi incollata al suo profilo che ritagliava il cielo, in mezzo alle vigne, finché non scomparve.
Il 5 agosto di quest’anno abbiamo fatto un salto a Tricarico, in occasione del matrimonio di Francesca e, approfittando di questa virata a sud della nostra settimana di vacanze estive, Mac è riuscito a guadagnarsi tre biglietti di ingresso a Castel del Monte per il giorno dopo, il 6, alle 17.00, sulla via del ritorno.
Abbiamo lasciato le terre di Lucania che da Grassano a Tricarico non conoscono l’etimo del bosco ma solo ondulazioni di giallo grano, giallo che satura lo spazio e straripa oltre l’orizzonte, le terre del falco a guardia dei confini di questa regione, che ne marca il territorio, a dirti che inequivocabilmente tu sei qui. Ogni volta che siamo entrati in Basilicata, sia dal versante tirrenico, superata Sapri, che da nord, usciti dall’autostrada Salerno-Reggio Calabria, siamo stati intercettati dal suo volo.
Il pomeriggio del 6 agosto, dunque, eravamo attesi da Federico II. Nel Rapporto della XX Sessione del Comitato del Patrimonio Mondiale UNESCO del 1996 si legge: “Castel del Monte possiede un valore universale eccezionale per la perfezione delle sue forme, l’armonia e la fusione di elementi culturali venuti dal nord Europa, dal mondo musulmano e dall’antichità classica. E’ un capolavoro unico dell’architettura medievale che riflette l’umanesimo del suo fondatore, Federico II di Svevia”.
Già, il nipote del Barbarossa, un principe rinascimentale ante litteram, che si erse a protagonista di 50 anni del XIII secolo e non solo per la sua sorprendente personalità politica.
Affascinante, coltissimo, curioso, amico di Ebrei e Saraceni, adorato ed esecrato, Federico II non conobbe le mezze misure nel giudizio dei suoi contemporanei: “Stupor mundi”, per taluni, Anticristo per altri, o, addirittura, il Messia inviato sulla Terra per riportare l’ordine di Dio e riformare la Chiesa corrotta.
La sua corte, esemplare crocevia delle culture cristiana, araba, ebraica e greca, fu cenacolo di intellettuali, artisti, uomini di scienza, matematici, come Leonardo Fibonacci. Lo stesso Federico, che conosceva alcuni testi aristotelici sulle scienze naturali, dimostrò nelle pagine della sua opera in sei libri sulla falconeria “De arte venandi cum avibus” (L’arte di cacciare con gli uccelli) di condurre secondo un metodo del tutto assimilabile a quello sperimentale scientifico la sua ricerca su diverse specie di uccelli e sui loro comportamenti.
Federico II non ha mai smesso di far parlare di sé.
Siamo arrivati al parcheggio appena in tempo per imbarcarci sulla navetta ed essere presentati a corte, nel cuore dell’ottagono, tra le sue massicce cortine murarie, interrotte, al piano inferiore, da monofore a tutto sesto e, al primo, da bifore goticheggianti, ad eccezione di un’unica trifora in direzione di Andria, città molto cara a Federico II per la sua fedeltà.
Varie ipotesi si sono avanzate sulla sua forma che, probabilmente, è riconducibile alla corona imperiale sassone-francone, in argento dorato e smalto, risalente al X-XI sec., conservata nella Camera del Tesoro del Palazzo imperiale di Vienna.
L’8, che si moltiplica nella planimetria del cortile, nel numero delle sale che si susseguono su entrambi i piani, tutte comunicanti tra loro, ad eccezione della prima e dell’ottava, separate da una parete, in quello delle torri, ugualmente a pianta ottagonale, innalzate sugli spigoli dell’edificio, è il sigillo imperiale che distingue questo superbo gioiello dell’architettura federiciana, in pietra calcarea, marmo, breccia corallina, sintesi della cultura estetica classica, romanica, islamica e gotica, edificato direttamente sullo sperone roccioso, intorno al 1240, a dominio di un paesaggio di boschi, corsi d’acqua, quale doveva essere la Puglia che conobbe il giovane signore nel 1221.
Una terra su cui, fino alla metà del 1200, Federico II impresse il segno del suo concetto di riorganizzazione del regno, attraverso un sistema di castelli, borghi e città, capisaldi di un’estesa rete di controllo all’interno di una regione che, in virtù della sua posizione geografica, ricopriva un rilevante ruolo strategico, rispetto allo Stato pontificio e al bacino del Mediterraneo.
E pur essendo così singolarmente diverso dai castra e palatia che Federico II fece edificare nel suo regno, privo del tutto di strutture, come fossato e caditoie, trattandosi di una delle sue domus solaciorum (residenze destinate all’ozio e ai diletti), Castel del Monte, nella sua possanza e visibilità anche a grande distanza, assolveva di fatto a una funzione difensiva, tra la costa e l’entroterra.
E dalle monofore che si aprono sulle pareti delle sale, al primo piano, il paesaggio morbido e verde. Lontanissimi Innocenzo III, Ottone IV, i Comuni italiani, lo spinoso scenario politico in cui l’imperatore svevo si destreggiò con intelligenza e spregiudicatezza. Solo il paesaggio della sua Puglia, le battute di caccia con il falcone, i cavalieri, le volpi, i cervi, i boschi, le fonti, i ruscelli e gli stagni e quella freschezza gioiosa del vivere che si respirava alla corte di uno dei più straordinari sovrani di ogni tempo.
Morto Federico. Neanche un falco in volo.