Panorami, ultima puntata. I Colossi di Memnone e l’Aurora

colossi di Memnone(1)

E’ morto Ettore, elmo lucente, così Pentesilea, l’impavida, bellissima figlia di Ares. Caduti per mano di Achille.

La notte scende su Ilio e sulle speranze di quelli che sono rimasti. Le Moire governano il cosmo e filano morte.

Bisogna resistere, è il re a incitare il suo popolo che ha meditato la fuga, Priamo, piagato, squassato dai lutti, che annuncia l’arrivo imminente di Memnone, il più bello di tutti gli eroi, alla testa del suo esercito di Etiopi. E quando Eos, l’Aurora dalle dita rosate, sua madre, accompagna la luce nel cielo, Memnone si dà a seminare la strage tra gli Achei.

Cade sotto ai suoi colpi Antiloco, figlio del vecchio Nestore, pronto a misurarsi con il campione etiope che, però, rifiuta di battersi con lui, così avanti negli anni. Al saggio re di Pilo non resta che rivolgersi all’amico del suo Antiloco, Achille. Sarà lui a vendicarlo.

In piedi, uno di fronte all’altro, i due semidei, il figlio di Teti, il figlio di Eos si lanciano parole di sfida che tagliano a pezzi l’aria e li accendono alla furia del duello. Ondeggiano i cimieri sugli elmi, vibrano le lance dalla punta di bronzo, schermano il corpo gli scudi rotondi.

Memnone spera di sopraffare Achille, si avventa su di lui, è un leone, e nell’impeto riesce addirittura a graffiargli la pelle. Anche le sue, del resto, sono armi forgiate da Efesto. Ma tutto è deciso. Zeus, davanti agli occhi supplici delle due madri, pesa la sorte di entrambi: soccomberà Memnone, Achille lo spoglierà della vita.

Il bellissimo eroe dalla pelle bruna cade nella polvere della piana, sotto le mura di Troia e i suoi fratelli, i Venti, che spirano su ogni plaga della terra, affranti, sollevano delicatamente il suo corpo – così ha chiesto Eos – e lo depongono lungo le rive del fiume Esepo, nella Troade.

L’Aurora scende dal cielo, le Ore e le Pleiadi sono con lei a vegliare nel lutto, a piangere sul cadavere dell’eroe. E’ un pianto straziante di madre che non si dà pace, dimentica di se stessa e del compito che le è stato affidato: dare inizio al dì, ogni giorno, all’estremo confine della notte che, adesso, è diventata eterna.

Zeus è furibondo e fa sussultare la terra sotto i suoi tuoni. La dea si prostra alle sue ginocchia: che il figlio, strappato nel fiore degli anni, riceva almeno onori degni del suo valore, che lo risarciscano per la sua infelice sorte e che possano, in qualche modo, lenire la sua disperazione.

Dal rogo funebre di Memnone, allora, si levano spesse nubi di fumo e cenere nera che annottano il dì e che a poco a poco prendono consistenza di corpi e di ali. Uccelli a centinaia si levano in volo, per tre volte girano intorno al rogo, la quarta si schierano su fronti opposti e si muovono guerra, lacerandosi con i becchi e gli artigli, finché non precipitano, senza vita, sui resti del giovane etiope dal quale sono stati generati.

Ogni anno, quando il Sole ha terminato il suo percorso attraverso le dodici case dello Zodiaco, quegli uccelli, i Memnonidi, si danno convegno per combattere sulla tomba dell’eroe. Al sorgere del dì, in eterno, Eos piange la morte del figlio e le sue lacrime bagnano i prati di rugiada.

Sono da poco passate le cinque. Ci siamo svegliati alle 3.45, stamane. Il Nilo è solo una pista nera tra la banchina e il blocco delle motonavi affiancate alla nostra. In cielo la luna rossa si avvia a tramontare, a est il sole non è ancora sorto. Le palme disegnano l’orizzonte.

Contadini alle fermate del bus, la sabbia sulla strada, sparuti nuclei abitati. La vita si accende prima della luce.

Ho dormito tre ore scarse e sono qui, sul pullman, in viaggio verso la Valle dei Re, accoccolata tra gli ultimi lembi del tepore del sonno e il brivido dell’imminente svelamento di qualcosa che ho atteso da tanto tempo. E quando l’Aurora diluisce la notte nel primo tenue chiarore rosato del giorno, nella piana di Tebe, tra i campi di canna da zucchero, fiammeggiano i bruciatori e si leva silenzioso il volo delle mongolfiere, al cospetto delle due sentinelle che precedono il pilone di ingresso del tempio di Amenophet III, faraone della XVIII dinastia.

I giganti monolitici di arenaria, seduti, le mani sulle ginocchia e il capo coperto dalla nemes, 15,60 metri di altezza più i 2,30 dello zoccolo su cui si elevano, rivolti verso sud-est. I colossi di Memnone.

Ma il figlio di Tithonos e di Eos, il bellissimo eroe dalla pelle bruna, nulla ha a che fare con loro, i Greci si sono sbagliati, hanno semplicemente mal interpretato il nome del faraone del Nuovo Regno, Amenothep III (1390-1342 a. C.), il grande sovrano che nel corso del suo impero prospero e pacifico ha promosso l’arte e la cultura e intessuto relazioni diplomatiche con i potenti regni di Mitanni, Babilonia, Khatti, Assiria, e gli stati vassalli dell’area siro-palestinese, anche attraverso la pratica dei matrimoni interdinastici.

Vieni, [Amon-Ra, signore dei troni delle Due Terre, che presiede a Karnak], possa tu vedere il tuo tempio che io ho costruito per te sulla riva occidentale di Tebe, la cui perfezione si unisce con la montagna di Manu. u attraversi il cielo per posarti in esso e quando splendi sull’orizzonte del cielo esso risplende per il fulgore del tuo volto; la sua facciata dà verso l’oriente [lett.: lato sinistro], verso il tuo sorgere: il tuo orizzonte per il tuo tramontare in vita. Quando tu brilli al mattino ogni giorno la tua perfezione è al suo interno, incessantemente.

Io l’ho fatto con un lavoro abile in pietra bianca di arenaria e la mia maestà lo ha riempito con monumenti e con ciò che io ho portato dal Gebel Ahmar. Si vede che essi occupano il loro posto e si gioisce molto per la loro grandiosità; io lo ho fatto ugualmente [con] tecnica mista, cioè alabastro, granito rosso e granito nero.

E’ scritto sulla stele rinvenuta nei pressi dei Colossi di Memnone, unici superstiti del tempio eretto per sfidare l’eternità, smantellato progressivamente, ridotto nel corso dei secoli a cava di materiale per le costruzioni successive, distrutto con tutta probabilità dal violentissimo terremoto che nel 27 a. C. scosse la terra.

Anche le due statue subirono gravi danni a causa del sisma. Di una rimase in piedi solo la parte inferiore. E un giorno, quando la notte stava ripiegando il suo velo sulla tela del cielo, qualcuno camminò sulle prime luci dell’alba e fermò all’improvviso i suoi passi. Un suono, una voce, forse un canto. Uno dei due giganti di arenaria, sotto le dita di Eos, parlava a sua madre. Quel colosso era Memnone, come avevano raccontato i Greci, che ogni mattina, al sorgere del sole, si riprendeva la vita. Tutti i giorni che seguirono la pietra parlò. Fino al 199 d. C., quando l’imperatore Settimio Severo predispose il restauro dei due monumenti.

Siamo in tanti stamane. I turisti non serbano il silenzio e sciamano in disordine tra i venditori di souvenir e la piana polverosa. La montagna di Manu copre la retroguardia e anche oggi Eos dalle dita rosate ha posato una carezza sul capo di suo figlio.

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Roberta Mango
8 mesi fa

Emozionante, grazie al potere delle tue parole! Bravissima

Agata
8 mesi fa

Cara Maria Paola, i tuoi meravigliosi racconti hanno
il potere di farci viaggiare nello spazio e nel tempo! Grazie per le emozioni che le tue parole regalano.

Rossella
8 mesi fa

Ciò ch’è mitico od epico nasce come umano. Memnone, che ci racconta di storie di eroi così lontane dalle nostre quotidianità, e Eos, che invece in forma soffusa e naturale appartiene ancora ai nostri giorni. Ambedue, però, ci hai ricordato come tu solo sai fare, rappresentano il nodo umano, eternamente indistricabile, di madre e figlia. Chi ci aveva riflettuto con tale profondità? Io no, solo Maria Paola lo so fare! Grazie, cara

Vida Ilic
8 mesi fa

Ho viaggiato con te stando sul divano!