Panorami, prima puntata. Il siq e il Tesoro del Faraone.

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Giordania, primo gennaio 2023.

Nebbia fitta e notte sulla strada che dal Wadi Rum ci porta verso nord, in direzione di Petra. Heymal, il nostro autista, procede adagio – molti si sono addormentati – al ritmo dei dossi di rallentamento sotto gli pneumatici, ci conduce con ogni attenzione e prudenza all’interno di questa bolla bianco-sporco che annulla i sensi sul paesaggio e che prima o poi dovrà infrangersi. Una nebbia che manco a Milano e, prima, la pioggia nel deserto, in questa sera d’inverno che ci porta in montagna, a sud, in Medio Oriente.

All’Hayat Zaman, a 1300 metri di altitudine, pioviggina e il vento raffica e ci sospinge nelle stanze di questo albergo-villaggio, di strade e costruzioni basse di pietra, terrazzate sul panorama di arenaria. Prima cena ad esordio d’anno che sa di questa terra e ci restituisce al piacere di stare insieme, con i piatti pieni, nell’euforia di assaggiare tutto, subito.

E domani sarà Petra, il siq, il Wadi Musa e “Khasneh al Faroun”, il Tesoro del Faraone e stanotte ancora è da passare.

Petra, 2 gennaio 2023. Anche stamane, di buon’ora, lembi di nebbia e vento. I tornanti aprono la strada sul tavolato.

Certo, penso, essere qui, adesso, le condizioni meteo, inesorabilmente instabili dal nostro arrivo… Forse abbiamo sbagliato il periodo. Solo sette giorni fa – meno male non siamo partiti la settimana prima del 31 dicembre –  i fiumi e le cascate d’acqua e di fango delle piogge torrenziali hanno fatto irruzione nel siq, lo hanno spazzato dai passi dei turisti, hanno dilavato le pareti della gola.

Nel 2018, 12 persone persero la vita, nel 1963, 23.

Petra e l’acqua dei Nabatei. Ricchi più di ogni altra tribù araba, briganti, mercanti di spezie, incenso, mirra e del bitume che ricavano dal Mar Morto; allevatori di pecore e cammelli, imbattibili in guerra, rabdomanti nella terra che soffre la sete. Scavano pozzi, ricavano cisterne sotterranee, le rivestono di stucco, le riempiono di acqua piovana, ne chiudono le aperture, invisibili a tutte le altre genti, nel deserto in cui si rifugiano e che diventa fortezza inattaccabile, quando il nemico si avvicina, alla testa del suo esercito.

L’acqua scorreva impetuosa sulle pareti dei rilievi, nella stagione delle piogge invernali. Bisognava  realizzare sistemi di raccolta che la canalizzassero verso le cisterne, per non mandarla perduta e, nello stesso tempo, dighe, a monte degli wadi, in grado di trattenerla. Un canale-acquedotto, poi, avrebbe dirottato verso Petra l’acqua della sorgente Ain Mûsa e un tunnel di derivazione, tagliato nella roccia, l’avrebbe convogliata nel centro della città, alimentando, addirittura grandi fontane pubbliche.

Qui, nell’arida regione di Edom, dall’arabo “rosso”, come il colore di queste montagne di Shara.

Al centro visitatori, drappelli in marcia, per lo più italiani, verso una delle sette meraviglie del mondo moderno.

Il Wadi Musa apre in discesa giallo arenaria, sabbia sotto ai piedi, due rive antiche di rocce arrotondate, tagliate, scolpite dal vento che qui regna perenne, e dall’uomo che ne ha fatto edifici e tombe rupestri.

A destra, a presidio della valle, le Case del Djin, le Case del Genio, dello Spirito. Tre cubi di pietra dalla storia singolare: sembra infatti che rappresentino la prima tipologia di sepolcro monumentale nabateo, progettato per rendere materialmente visibile la presenza dell’anima di chi era stato sotterrato.

Nefesh, nafs in arabo meridionale, a Petra significava persona, spirito. I Nabatei, dunque, al di sopra della tomba vera e propria, tagliavano nella roccia, un segnacolo piramidale, la nefesh.

Il particolare curioso, però, è che talvolta la nefesh non si trovava in prossimità della tomba, ragion per cui gli archeologi ne hanno sottolineato la funzione essenzialmente commemorativa, a ricordo della persona del defunto.

Due cavalli ci passano accanto; qualcuno è già sulla via del ritorno. Deve essere arrivato all’alba. Quattro nefesh sulla Tomba degli Obelischi, sulla sinistra, uno per ciascuna anima, ad aggiungersi alla quinta, una figura antropomorfa erosa, in una nicchia al centro.

Le rive opposte del wadi, dell’antico fiume fossile, incominciano ad avvicinarsi. Ci siamo quasi, tra pochi passi i resti dell’arco, in apertura monumentale di questa strada tettonica e sacra, lunga 1200 metri, faglia angusta della Terra che si muove e spacca la roccia che qui è verticale e assoluta, nei suoi 200 metri di parete e stratificazioni di età geologiche che si sono succedute e si raccontano nelle venature speculari, nei passaggi più stretti. Canali scavati nella pietra per convogliare l’acqua alla città, con le fistulae, i tubi di terracotta, incastrati gli uni negli altri, a formare le antiche condutture, ancora visibili, in alcuni tratti.

Il siq si apre ad imbuto e inghiotte a mano a mano, ad uno ad uno i turisti, in drappelli in discesa, sul terreno che è ancora bagnato e rivela, in un punto del percorso, il basolato della pavimentazione romana, riportata alla luce nel 1997.

E’ importante conservarsi per l’arrivo, per quel punto in cui si intersecano le rette del tempo, dell’attesa, e quella dello spazio, in cui tutto ciò di cui la tua capacità di immaginazione ti ha nutrito si esalta e ti muove a commozione o annichilisce di fronte allo spettacolo della superfetazione perpetrata dalla realtà. E allora anche questo viaggio, percorso tante volte nella mente, scenografia di reportage, documentari, pellicole di cassetta potrebbe deludere le tue aspettative, è già successo con il Krak des chevaliers, in Siria, in direzione del varco di Homs, a dominio dello sbocco della fertile pianura della Beqa. Il baluardo mai espugnato, ceduto dai Crociati, rimasti in duecento, dell’iniziale guarnigione di duemila uomini, ai musulmani del sultano mamelucco d’Egitto, Baybars, la pantera, che li avevano assediati.

Scorsi le sue torri dalla superstrada e poi, al suo cospetto, il senso del dominio del passo fatto a pezzi dalla selvaggia edificazione, verso il mare.

E il viaggiatore è turbato, deve schermare con la mano la prospettiva irrimediabilmente guasta. E noi qui, nel siq, siamo già una processione, le navette elettriche ci passano accanto, facciamo attenzione a dove mettiamo i piedi, a non perdere il gruppo, ci fermiamo per le fotografie – nelle nicchie sulle pareti la rappresentazione aniconica di Dushara, il padre del pantheon nabateo – e Mac è davanti a me, che filma con la telecamera, e io sono con Milla e “no, non abbiamo fonti storiche nabatee, le prime notizie sono quelle di Diodoro Siculo e, poi, di Giuseppe Flavio”, rispondo a una compagna di viaggio, e non devo smarrire il passo e la prospettiva, mentre riprendo con il telefonino per Livia che è lontana – la ripresa non è stabilizzata, come faccio? – e le pareti del siq sembrano quasi congiungersi in alto e – è forse solo la mia impressione? – sembra che si stiano spegnendo anche i rumori. Lo so, siamo all’arrivo. Il sole ha già fatto il suo ingresso sulla verticale di roccia rossa e l’ha squarciata di luce. Le ultime tre colonne del primo piano e il semifrontone di destra del secondo. No, non mi fermo, arrivo fino in fondo, tutto si compie e la retta del tempo ha sovrapposto il suo segno su quella dello spazio. Ritornerò indietro, ma sarà già dopo, a scattare foto.

Khasneh al Faroun, il Tesoro del Faraone, colui, per intenderci, che secondo la leggenda, all’inseguimento degli israeliti, lo avrebbe nascosto all’interno dell’urna che sormonta il tetto conico della tholos rotonda, al secondo piano. Leggenda alla quale, evidentemente, qualcuno deve aver dato grande credito, visto che non ha pensato due volte ad imbracciare il fucile e a giocare a tiro a segno con il vaso panciuto, convinto che ben presto avrebbe messo le mani su una favolosa fortuna! “Auri sacra fames!” avrebbe commentato Virgilio!

Il tesoro del Faraone è il miraggio che si spalanca agli occhi del visitatore che ha percorso il corridoio del siq, il fronte in chiaroscuro, alto 40 metri, che interrompe la teoria della parete di arenaria nella quale ha scavato la sua architettura, una miscellanea di gusto ellenistico e nabateo, in cui si danno convegno Iside, Vittorie, Amazzoni, aquile, sfingi, Dioscuri psicopompi, nel sincretico eclettismo di una cultura che parla tante lingue.

Il monumento è il simbolo di Petra, in qualunque modo lo si voglia interpretare, tomba, tempio, dedicato a Iside o a Dushara, risalente all’età adrianea o, come è più probabile, a quel periodo che segna la fine del I sec. a. C. e l’inizio del I d. C.

E’ qui che arriviamo, in quell’ora del mattino perfetta per le fotografie, quando la facciata si imbibe di sole ed io ripeto grazie e grazie a chi mi ci ha condotta, a chi mi ha fatta così come sono perché adesso sto piangendo e sono felice, quest’attimo non è solo per ora, non è il tempo del commiato, ci ritornerò stasera, ripercorrerò il siq e un’altra ancora sarà la luce.

 

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Mac
9 mesi fa

È passato poco più di un anno dal nostro bellissimo viaggio e le tue sensibili e colorate parole mi riportano a quell’indimenticabile emozione!
Grazie Maria Paola

Mac
9 mesi fa

Domani…..