Livia è nata il 12 luglio. Cominciava a farsi sentire il caldo. Nacque di notte, alle tre e mezza, dopo i chilometri a camminare su e giù per i corridoi del San Giovanni, con la mamma, il papà ed Angelo. Non potevo mica lasciarli da soli!
Angelo si era appena addormentato – gli avevo telefonato che la mezzanotte era passata da poco – e aveva sfrecciato con lo scooter attraverso la città. Livia ancora ride al racconto di quella notte di euforia, che sta per diventare il suo primo giorno di vita e che romba di marmitta e motore a scoppio.
Proprio la scorsa settimana, alla fine della salita che porta alla chiesa dei Santi Quattro Coronati, ci siamo fermati di fronte alle finestre del secondo piano del reparto maternità.
La mia stanza aveva sei o otto letti, non ricordo bene, c’era una ragazza indiana che soffriva molto, si lamentava e chiedeva aiuto, anche se in pochi, in verità, le davano ascolto; una giovane mamma bionda e solare, al suo secondo parto, che aveva l’aria rassicurante di chi ci è già passata, conosce come vanno le cose e con quella sorridente saggezza delle donne di un tempo sa parlare e muoversi con serena autorevolezza e dispensare consigli a noi, puerpere non del tutto consapevoli.
Proprio accanto a me, una bella ragazza, colore dell’ambra, di etnia Rom. Non voleva che le portassero il suo bimbo, non lo voleva vedere, non lo voleva allattare. Se ne stava sdraiata sul fianco di quel corpo bruno, con i capelli che ricoprivano il cuscino, in silenzio, e teneva a distanza il mondo anche se il suo letto, ogni pomeriggio, diventava il centro gravitazionale di un cosmo che debordava voci, oro sgargiante e colori, e le faceva festa intorno, perché lui era nato anche se lei aveva deciso di cancellarlo, senza alcuna possibilità di appello.
Poi terminava l’orario di visita, la stanza si sgonfiava, si attutiva la luce dei rumori, io cercavo una posizione che non accendesse il dolore e mi permettesse, di lì a poco, di prendere tra le braccia la mia Livia, allacciare tra le dita i primi passi della nostra storia insieme.
E’ difficile penetrare il silenzio dell’altro, superare il valico di due spalle voltate, ma intercettai un varco nello sguardo di quella donna che mi stava accanto, le sorrisi e lei incominciò.
Una storia tribale di leggi remote e inconfutabili come il sangue e il ferro, in cui le donne mettono al mondo figli che, poi, si prenderà la strada, come tutti gli altri da lei nati. Aveva negato il suo ventre – si era fatta prescrivere la pillola anticoncezionale dal medico di un consultorio – aveva detto di no, e il suo uomo l’aveva picchiata quando lo aveva scoperto, le avrebbe strappato anche la gola.
Ed ora? La sua voce buia, arcana come le parole di un rito ctonio entra nello spazio aperto tra i nostri letti, e Livia sta arrivando sul carrello dei neonati, ieri ha voltato il capo, con volontà compiuta, così sorprendente nel suo gesto, al suono del suo nome che io pronunciavo, appena percettibile.
La voce che si è fatta bruna, come quel corpo rannicchiato. L’ho risentita dentro tante volte e ho scritto versi desolati e scuri, di un tempo che si è piegato su se stesso perché tutto è stato ed è finito. Lo stesso che ho letto sul volto di Cristo della “Cena in Emmaus” di Caravaggio, quella di Brera, la più sacra e desolata. Anche se la resurrezione si è fatta viva, anche se la verità si è rivelata, io che la guardavo per la prima volta non riuscivo ad essere la gioia stupefatta delle mani che il commensale di spalle ha spalancato. Erano gli occhi assorti di quel Cristo che era risorto, stanco di tutto questo mondo che non aveva voglia di capire, che avevo sentito su di me.
Quando sei nato
non possedevo il tocco
di tenerti accanto.
La tua musica si muoveva ad una cadenza oscura
e la città mi ha riso in faccia
la possibilità d’esser tua madre.
Non ho voluto
che ti facessero abietto di crimini di strada
oggetto di quattro soldi di pietà
svenduto.
Ci vuol coraggio
a passar di mano
a concedere ad altri
la tua storia.
L’ho fatto
e me lo sento ancora addosso
il tuo voltarti alla mia voce
la prima volta che io ti ho chiamato.
“L’abbandono”. L’ho scritta in inverno, quando Antonella Cappuccio mi coinvolse nel suo progetto intitolato “Fantasmi a Roma”, che ritraeva 18 personaggi, interpretati dalla sua pittura come esili, fugaci, occasionali umanità, incrociate, magari appena percepite nello scorcio di un attimo, nella città consacrata all’eterno. Quella madre che si era negata, conosciuta per qualche istante, anni prima in uno stanzone del reparto maternità dell’ospedale San Giovanni era diventata uno dei miei fantasmi.
Venerdì sera, 28 aprile, in via Botticelli, nel quartiere Città Studi, a Milano, in un cassonetto giallo per la raccolta di abiti usati, un uomo ha trovato il corpo senza vita di una bimba, avvolto in una felpa. Spuntava la sua piccola mano. Sembra che sia nata in casa e fosse morta quando l’hanno lasciata in mezzo a quelle cose appartenute a sconosciuti.
Tutto è stato, tutto è finito.
Sempre molto vera, toccante ma leggera nel raccontare tristi verità che si vorrebbero negare! È facile incolpare più difficile comprendere. Brava Maria Paola
Grazie di cuore, cara Serena
Grazie di cuore, cara Susanna!
Cara Maria Paola che bellissimo e toccante racconto, la tua poesia poi, arriva dritta al cuore. Un abbraccio