Il cacciatore del cielo

Orione(1)

Eccoci qui, già sulla strada del ritorno. Tre giorni fuori dalla vita di Roma. Sul cielo è nitore di tramontana e di sera che si dispiega. Venere sfavilla. Orione solleva nella mano destra la clava; sull’omero Alfa Orionis, Betelgeuse, in arabo “la casa dei Gemelli”, probabilmente per la vicinanza all’omonima costellazione; con la sinistra brandisce lo scudo, Beta Orionis, Rigel, in arabo “il piede”, ad indicare la sua posizione sull’arto corrispondente; Bellatrix, Gamma Orionis, sulla spalla; Alnitak, Alnilam e Mintaka, le gemme incastonate nella cintura.

Il bellissimo gigante cacciatore della notte d’inverno, che possiede alcune tra le più splendenti stelle, brilla ancora sul lago, a ovest dei suoi segugi, il Canis Maior e il Canis Minor, nell’aria che si è fatta trasparente di aprile.

Anche chi ha scarsa dimestichezza con la volta celeste lo riconosce facilmente e, se vuole approfondire la storia che la sua imponente figura racconta tra gli astri, deve raggiungere la Mesopotamia in un ipotetico quanto affascinante viaggio a ritroso di oltre 5000 anni, quando i Sumeri, per primi, i Babilonesi e gli Assiri, poi, definirono quella mappa del cielo che i Greci cominciarono a conoscere e a prendere in prestito, a partire dal VI sec. a. C.

Il popolo dei Caldei chiamava la costellazione di Orione Tammuz, come il nome della divinità maschile di origine sumerica, nota anche come Uru-anna, “luce del cielo”, legata al ciclo annuale della natura che si rigenera in primavera nelle sue creature animali e vegetali. Nel mese di Tammuz, appunto, le stelle della cintura di Orione sorgevano prima del sole.

Ancora, nella terra che si adagia tra il Tigri e l’Eufrate si narrava di come, in realtà, quell’aitante gigante celeste altri non fosse che il sumero Gilgamesh, il mitico re della città di Uruk, che aveva avuto l’ardire di rifiutare l’amore dell’immortale Ishtar e la dea, per consumare la sua vendetta, chiese al padre di mandare sulla terra il toro celeste a devastare il regno dell’eroe. Gilgamesh, impavido, lo fronteggiò nelle pianure dell’Eufrate, insieme al fedele Endiku, e lo trafisse a morte.

Per gli Egizi Orione era lo spirito di Osiride, il signore dell’oltretomba, emblema, al pari di Tammuz, della morte e della rinascita, della stagione secca che cede il passo a quella benedetta dalle inondazioni del Nilo.

I mitografi greci e latini si sono sbizzarriti a raccontare la storia di questo rilucente gigante di cui esistono svariate e spesso contraddittorie versioni che, in verità, non parlano di imprese particolarmente degne di nota o, per lo meno, tali da spiegarne la sua maestosa presenza tra gli astri, ma che concordano solo nell’affermare che Orione era indubbiamente un cacciatore – Odisseo lo incontra nel regno di Ade, mentre inseguiva “in branco le fiere pel prato asfodelo, quelle che sempre uccideva sui monti solinghi, con mazza di solido bronzo, che mai può spezzarsi” (Omero, Odissea, XI, vv. 572-575) – senz’altro avvenente, a vario titolo implicato in vicende e ménages talvolta ambigui, come quando, obnubilato dai fumi dell’alcol, aveva usato violenza alla principessa Merope, e per questo oltraggio era stato accecato da suo padre, Enopio, il re di Chio.

Orione era stato oggetto delle attenzioni di Eos e dello stesso Elios, invaghitisi della sua affascinante prestanza ma, soprattutto, di Artemide, dea della Luna, che a tal punto si innamorò del compagno di tante battute di caccia da incominciare a trascurare il suo dovere di illuminare il cielo notturno e a pensare, addirittura, di rinunciare alla castità.

Il suo gemello, Apollo, che disapprovava quel sentimento, roso dalla gelosia, tese un tragico tranello alla sorella: vedendo Orione nuotare nel mare, la sfidò a colpire con una freccia quello che, a distanza, sembrava essere un cane tra le onde.

Il dardo d’argento scoccato da Artemide non fallì il bersaglio e solo quando la risacca le restituì il corpo dell’amato, la dea si rese conto di quanto si fosse compiuto e, disperata, lo collocò in cielo – o, secondo un’altra vulgata, lo fece Zeus, profondamente commosso da tanto dolore – insieme ai suoi segugi e al fedele Sirio, la più splendida delle stelle, che brilla nella costellazione del Canis Maior a soli 8,8 anni luce da noi.

Sirio, conosciuta anche come “stella del Cane”, nome con il quale la identificavano gli Egizi i quali avevano dedotto che la sua luce, all’alba, precedeva quella del Sole quando stava per avere inizio la piena del Nilo. Sirio, in altre parole, come un fedele cane da guardia, annunciava il solstizio d’estate o, almeno, così accadde fino al 2200 a. C. circa, per via della precessione degli equinozi. Dalla metà del I millennio a. C., attorno al 24 luglio, infatti, la luminosissima stella sorgeva e tramontava insieme al Sole e quel periodo coincideva con i giorni più caldi dell’anno, quelli che Greci e Romani chiamavano “i giorni del cane”, la canicola, appunto.

Passarono i secoli e nel X d. C. l’astronomo persiano Al Sufi ci spiegava nella sua opera “Descrizione delle stelle fisse” che gli Arabi chiamavano Sirio con il nome di “Schira al- Abuz” che significa “Sirio che ha attraversato”, facendo riferimento a un antico mito dei nomadi del deserto secondo il quale l’astro dovette attraversare la Via Lattea  per raggiungere la regione celeste più a sud.

I colleghi di Al Sufi, ai nostri giorni, osservando il lentissimo moto della stella, sono giunti alla conclusione che negli ultimi 60.000 anni Sirio ha effettivamente attraversato la Via Lattea.

Come lo avranno scoperto i nomadi del deserto?

Sulla via del ritorno Orione brandisce la clava di bronzo nella volta stellata spazzata dalla tramontana. Ai suoi piedi il Canis Maior è all’erta, ritto sulle zampe posteriori, pronto a precedere il cacciatore del cielo, sulle tracce della preda.

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