Come sarebbe bello se sulla pietra della sepoltura ci fosse il posto per raccontare la storia di chi ci ha lasciati!
Un epigramma, alla maniera degli antichi Greci, che rammenti a colui che vi sta passando accanto tutto quel fluire che chiamiamo vita, e a cui la morte ha messo fine.
Una frase, un motto, un vezzo, un’abitudine, il gesto di un amore, lo sguardo di chi lo ha conosciuto che diventano un ritratto.
E’ mestiere dei poeti cogliere l’essenza in poche voci e trasformarle in canto.
Qualcuno mi disse della tua morte,
Eraclito, e piansi. E ricordai allora
le molte volte che parlando insieme
ci raggiunse la sera. Ora tu, amico
d’Alicarnasso, sei da lungo tempo cenere in qualche luogo.
Ma vivono per sempre i tuoi “Usignoli”:
su di loro Ade che tutto rapina
non metterà le mani.
(Antologia Palatina, VII; 80; traduzione di Salvatore Quasimodo)
Scriveva Callimaco di Cirene, uno dei più grandi compositori di epigrammi, vissuto tra la fine del IV e l’inizio del III sec. a. C.
Epigramma, “scritto sopra”, un’incisione, dunque, sulla pietra di un sepolcro, una composizione poetica in occasione della morte, un omaggio in versi al defunto, in distici elegiaci, quel metro formato da un esametro dattilico e da un pentametro, usato per la prima volta da Archiloco, nel VI sec. a. C., e poi divenuto distintivo di quel genere.
L’elegia sembra essere la composizione lirica più antica. E il suo nome, per alcuni, è da porre in relazione con elegos, la canna di bambù che, probabilmente, fu il primo strumento musicale, e da altri, con “é é lége”, dove “é é” è il lamento funebre intonato in omaggio del defunto. Con il passare degli anni, poi, il metro fu usato per composizioni di contenuto differente.
Gli epigrammi di Callimaco di Cirene, raccolti nell’Antologia Palatina, ci parlano di un’umanità varia e vivace, di bevute, di feste:
Un forte bevitore era Erasisseno: due coppe di vino puro,
trangugiate di seguito, se lo sono portato via. (AP, VII, 454)
Ci raccontano storie di gratitudine e disperazione:
Papà Filippo ha sepolto qui suo figlio Nicotele,
di dodici anni, la sua grande speranza. (AP, VII, 453)
Di marinai rapiti dalle onde, mai più restituiti ai riti pietosi della sepoltura:
Se le navi veloci non fossero mai esistite! Noi
non dovremmo piangere Sopoli, il figlio di Dioclide.
Ora lui vaga, morto, per il mare; non è qui:
abbiamo davanti una tomba vuota. (A P, VII, 271)
Vite modeste, uomini semplici divenuti immortali.
Una ninfa ha rapito dai monti Astacide di Creta,
il capraio, ed ora Astacide è immortale.
Sotto le querce del Ditte noi pastori
non canteremo più Dafni, ma Astacide, per sempre. (AP, VII, 518)
Di creature strappate prematuramente alla luce del sole:
Molte ragazze di Samo cercano Cretide,
una chiacchierina sempre pronta a scherzare,
dolcissima amica, vivace. Ma essa dorme qui
il sonno che a tutte è dovuto. (AP, VII, 459)
Di tenebre senza ritorno perché anche l’uomo più misero sulla terra, vivo, è un re al cospetto di un eroe morto L’anima piange sempre quando si stacca dal corpo. La vita è il sole; la morte il buio. Solo gli dei non sono disturbati dalla fine.
Sotto di te riposa Carida, è vero? “Se intendi
il figlio di Arimna di Cirene, sì”.
Cosa c’è di là, Carida? “Solo buio”. E il ritorno?
“Bugie”. E Plutone? “Tutte storie”. E’ la fine.
“Questa è la verità ma vuoi sapere una cosa carina?
Con un soldino ti compri un toro intero, nell’Ade”. (AP, VII, 524)
O ancora, dalla penna di Saffo:
Quando sarai morta tu giacerai, né più
si ricorderanno di te, mai più per sempre:
non conosci le rose della Pieria
ma sconosciuta anche nella casa dell’Ade
ti aggirerai aleggiando tra le oscure ombre dei morti. (Fr. 55 Voigt)
L’epica degli addii. Nei distici elegiaci degli epigrammi, nel marmo pentelico delle steli funerarie che torno sempre a visitare, al Museo Archeologico di Atene, per commuovermi ogni volta della morte che ciascuno di noi si porta addosso.
Nel 1870, nel cimitero del Ceramico, ad Atene, una stele della fine del V sec. a. C., attribuita a Callimaco, torna a raccontare la storia della nobile Hegesò, figlia di Proxenos, elegante nel suo raffinatissimo panneggio, seduta su una sedia, i piedi appoggiati su uno sgabello, nell’atto di prendere in mano e guardare un gioiello da uno scrigno che tiene tra le mani una sua ancella.
Sulla stele di Salamina, del 430 a. C., un fanciullo, in piedi, a torso nudo, nella mano sinistra, abbandonata lungo il fianco, stringe ancora, mollemente, il suo uccellino che, forse, ha preso dalla gabbia, per proteggerlo dal gatto. E il piccolo, bellissimo servitore è afflitto, tutto è irrimediabilmente spento alla vita.
Nel letto del fiume Ilisso, nel 1874, si rinviene un’opera struggente, subito attribuita, per la sua drammatica plasticità a Skopas di Paro o a uno scultore della sua officina.
Un ragazzo nudo, appoggiato a un pilastro, con le gambe incrociate, nella mano sinistra il bastone con cui catturava le lepri, insieme al suo cane che, adesso, annusa la terra. Un giovane cacciatore, sotto lo sguardo del padre, sul lato destro del rilievo, vecchio di un dolore senza rimedio. Sul fondo uno schiavo del defunto, un ragazzino affranto, che si è addormentato sui gradini.
Dove sei, ragazzo dell’Ilisso?
Morte ti ha rubato gli occhi
e tu sei già lontano.
È bellissimo il tuo scrivere…… come te!
Grazie, amica mia❤
Di fronte a ciò che ho letto non si può che rimanere estasiati a contemplare la sensibilità, cultura, aulicita’ dell’autrice a cui vanno tutti i miei complimenti e ringraziamenti per tutti gli spunti di riflessione che mi ha fornito. Rileggerò comunque più volte il tutto affinché possa ogni volta scoprirne gustarne nuovi aspetti.
Grazie di cuore!
Che squisita e raffinata sensibilità!
Grazie, sono lieta che ti sia piaciuto!
Eccellente rappresentazione della morte sotto tanti punti di vista. Eppure queste sfaccettature non riconducono ad un senso di mestizia a cui siamo abituati noi moderni… Bravissima Maria Paola
Grazie,cara Carla!