Qualche anno fa, scrivevo per un quotidiano e mi occupavo di politica e gestione dei beni culturali. Per una serie di circostanze, mi capitò di conoscere Fumone. Ci andavo spesso, in compagnia di qualche amico, d’estate, quando quel piccolo borgo della Ciociaria si animava, al fresco della sera, di piacevoli iniziative artistiche.
Mi infilavo sulla Roma Napoli, al tramonto, alla guida della mia Ford Fiesta e, dopo un’oretta, ero sui tornanti che portavano alla rocca, sul cocuzzolo del monte, a 800 metri di altitudine, al castello che si ergeva quasi ai confini del territorio dello Stato della Chiesa, a dominio della valle del Sacco e della via Latina, baluardo del papa contro le scorribande di Saraceni e Normanni.
Fumone, che deve il suo nome ai segnali di fumo che annunciavano l’avvicinarsi degli eserciti invasori, in quei tempi bui e burrascosi, nell’antico territorio degli Ernici; formidabile punto di vedetta che consentì ai Romani di spiare le mosse dei Sanniti, accampati a Sora, e, in seguito, dei Cartaginesi di Annibale, di stanza a Capua, quando il generale decise di muovere verso Roma, percorrendo la via Latina.
La storia dell’Arx Fumonis, la rocca di Fumone, cominciò ad intrecciarsi con quella dello Stato della Chiesa nel 962, quando l’imperatore Ottone I ne fece dono a papa Giovanni XII, insieme alle città di Teramo, Rieti, Norcia e Amiterno. Infuriava, allora, la lotta per le investiture, la disputa che contrapponeva fieramente il vicario di Cristo all’imperatore il quale, contro il dettato del diritto canonico, pretendeva di conferire le dignità ecclesiastiche di vescovo e abate ai chierici. E il maniero di Fumone balzò agli onori della cronaca, diventando la prigione niente meno che di un antipapa e un papa: Gregorio VIII e Celestino V.
Mi spiego meglio. Avete presente quell’Enrico IV di Germania, di pirandelliana memoria, che, per impetrare il perdono di Gregorio VII che lo aveva scomunicato, il 25 gennaio del 1077 si presentò davanti alle mura del castello di Canossa, dove il Santo Padre era ospite della contessa Matilde, e vi rimase tre giorni, a piedi scalzi, in veste di penitente, finché non venne ammesso alla sua presenza? Ebbene suo figlio, Enrico V, re di Germania e imperatore del sacro romano impero, scomunicato a sua volta da Pasquale II, alla morte del pontefice occupò Roma e fece eleggere contro Gelasio II, l’antipapa Gregorio VIII, che lo aveva incoronato imperatore. Calisto II, salito al soglio pontificio dopo Gelasio, lo imprigionò nella rocca di Fumone.
Quasi due secoli dopo toccò a “colui che fece per viltade il gran rifiuto”, come lo etichettò Dante nel III canto dell’Inferno, al frate eremita Pietro del Morrone, Celestino V, un uomo timido, mite, in odore di santità, la cui figura incarnava quel “papa angelico” in grado di riformare la Chiesa corrotta, di ricondurla alla purezza degli insegnamenti evangelici. Era già avanti negli anni il 5 luglio 1294, quando i cardinali lo elessero all’unanimità per quello che si sarebbe rivelato come uno dei pontificati più brevi della storia: solo pochi mesi dopo, infatti, incapace di sottrarsi alle insistenti pressioni cui era da più parti sottoposto, egli rinunciò alla carica.
Il Cardinale Benedetto Caetani, che lo aveva sostenuto in questa sofferta decisione, una volta eletto papa, con il nome di Bonifacio VIII, pensò bene di confinarlo nello stesso maniero, temendo la possibilità di uno scisma. Celestino V ben presto si ammalò. Si racconta che poco prima di morire, dopo solo dieci mesi di prigionia, sulla porta della sua cella, ancora oggi meta di pellegrinaggio, apparve una croce splendente.
Passarono i secoli e il castello venne abbandonato al degrado sino agli interventi di recupero e ampliamento realizzati dai marchesi Longhi, ai quali, nel 1584, papa Sisto V affidò il castello, in nome dell’antico legame della famiglia aristocratica romana con Celestino V, che aveva nominato cardinale un loro antenato.
Raccontai qualche tempo fa questa storia, a dire il vero, non proprio così diffusamente, a Mac al quale non era mai capitato di visitare Fumone. Quale migliore occasione, dunque, di una giornata infrasettimanale, da spendere tra i vicoli della rocca, con meritata pausa di degustazione dei prodotti locali?
Tra le notizie scovate in rete sul borgo, inciampammo nella “Taverna del Barone” che, stando alle entusiastiche recensioni degli avventori, avrebbe senz’altro meritato la nostra visita. Ma era lunedì, il giorno di chiusura, secondo le informazioni raccolte.
Decidemmo di partire comunque, debitamente paninomuniti. Potete immaginare, dunque, la nostra sorpresa quando, superata la porta urbica, dopo pochi passi sul corso, sulla sinistra, ci trovammo di fronte all’insegna della trattoria, quel lunedì eccezionalmente aperta. Superammo la soglia ed entrammo in un altro tempo: musica medievale, pietra sotto i nostri passi, tavola e panche di legno, brocca dell’acqua, bicchieri e piatti in coccio, un litro di Cesanese, bruschette, prosciutto, salame, cacio e olive; fettuccine al sugo di pomodoro, pasta e fagioli, pollo e patate arrosto, insalata mista, ciambelline al vino, caffè, ratafià e liquore alla genziana. Senza soluzione di continuità, senza l’impegno di alcuna decisione – menu fisso – semplicemente arrendendosi all’ineluttabilità degli eventi, in un climax ascendente di sapori, caldi, avvolgenti e genuini. Sazi, beatamente paghi, con la netta convinzione che quello sarebbe stato il primo di una serie di pellegrinaggi futuri, ringraziammo personalmente le cuoche che ci omaggiarono di un sacchetto di ciambelline e relativa ricetta, prendemmo mentalmente nota delle pietanze della settimana e decidemmo su due piedi che avremmo presto fatto ritorno di giovedì. Sì, perché quel giorno dal Barone si onora la civilissima tradizione romana di cucinare gli gnocchi di patate.
E giovedì fu, da soli e con Livia, con il pretesto di festeggiare i suoi successi universitari o di una visita, peraltro assai fugace, a ridosso dell’ora del pranzo, di centri storici più o meno vicini.
Il 2 marzo, giovedì, piove. Piove dall’inizio della settimana, in verità, e non sono previste schiarite. Il giorno ideale per pranzare dal Barone.