Il mese scorso, di passaggio a Poggio Moiano, Mac ha inopinatamente scovato per me, in una ferramenta fornitissima, l’oggetto delle mie ripetute quanto vane ricerche durate un anno intero: il manico della mia vecchia trowel. Quello originale si è definitivamente arreso, verberato dall’acqua piovana nel giardino dei miei, da quando lei si presta docilmente alle escavazioni domestiche, per l’estirpazione delle radici più tenaci. Se ne sta lì, con un manico di legno scuro arrangiato, se non erro da mio zio Pasquale, e non è più mia.
Me l’hanno regalata, negli anni ’80, è usata ma mi va benissimo, in attesa che qualcuno, in viaggio in Inghilterra, me ne porti una nuova. Qui a Roma, non c’è proprio verso di trovarla, l’ho detto anche a papà che le ha dato una rapida occhiata e l’ha liquidata con una definizione lapidaria: è una cazzuola. Lo conosco, mi vuole provocare, e prima ancora che io possa attaccare l’incipit di una dissertazione che ne certifichi nel dettaglio le multiformi potenzialità tecniche, lui è già sparito dietro una porta, in un’altra stanza.
La prima stagione di scavo, a Pratica di Mare, l’antica Lavinium, in un’area che reca le tracce dei pali delle capanne ovali dell’abitato, risalenti all’VIII secolo a. C., resti di mura in opera quadrata di blocchi di cappellaccio e depositi votivi; le campagne alla Meta Sudans, la fontana di forma conica, fatta erigere dalla dinastia dei Flavi nel punto di convergenza della I, II, III, IV e X regione augustea, i quartieri in cui il primo imperatore di Roma aveva suddiviso la città.
Con la mia trowel o, meglio, pointing trowel, la regina degli utensili dell’archeologo, forgiata in un unico pezzo di acciaio, ho asportato stratigrafie, inciso e spaccato i terreni più compatti e tenaci, raschiato e pulito muri.
Il nuovo manico le calza alla perfezione, si tratterà di imprimere sul legno non trattato il profilo del palmo della mia mano, di sporcarlo, invecchiarlo un po’, di stemperare il contrasto cromatico tra il metallo dell’anello, che rifinisce il punto di aggancio dell’impugnatura, e il corpo dell’utensile che assomiglia sempre più, sulla sua superficie scabra, ad una punta di lancia del Neolitico.
Trowel rinnovata nella borsa da viaggio, sono pronta per partire.
Sei intere stagioni di scavo infaticabile e durissimo nella Valle dei Re, migliaia di tonnellate di detriti di superficie, lasciati da chi ci ha preceduto, rimosse. Forse è tempo di andarcene, di abbandonare definitivamente l’area, ce lo stanno ripetendo in molti, ma quella tazza di porcellana, che Theodore Davis ha trovato nascosta sotto una roccia, con il cartiglio di Tutankhamon, quella scatola di legno, con frammenti di lamina d’oro, che ripete quel nome, dentro una minuscola tomba a pozzo, che lo stesso Davis ha interpretato come luogo destinato alla sepoltura di Tutankhamon, sono qualcosa di più di una illusoria speranza. Ma non può essere quella, è troppo modesta per un faraone della XVIII dinastia. Carter ne è assolutamente certo: la sua tomba non è ancora venuta alla luce e non è questo per lui il momento di rinunciare.
Il primo novembre assolda la squadra di uomini che ci affiancheranno in questa ultima campagna. Incominciamo a scavare in direzione sud, esattamente dal punto in cui abbiamo interrotto quella precedente: l’angolo nord-orientale della tomba di Ramses. Demoliamo le antiche baracche che hanno ospitato i suoi operai – ne abbiamo disegnato la pianta – rimuoviamo quello strato di terra, alto un metro, e raggiungiamo finalmente il piano di roccia sottostante. E’ il 3 novembre.
La mattina del 4, quando Carter giunge sul cantiere, i lavori si sono improvvisamente fermati. Sotto la prima baracca demolita siamo incappati in un gradino tagliato nella roccia, il primo di una rampa che scende, ripida e incassata, quattro metri al di sotto dell’ingresso della tomba di Ramses VI. Ci diamo da fare senza conoscere tregua, e nel pomeriggio del 5 l’intera massa di detriti che occupa la scala è rimossa e rivela, forse, l’accesso di una tomba, scavato sul fianco di una collinetta, un corridoio alto più di tre metri e largo due che si inoltra all’interno della roccia.
Al termine del dodicesimo gradino, ci appare la parte superiore di una porta chiusa e ricoperta da intonaco. Nessuna traccia del nome del proprietario sui sigilli, a parte l’identificativo della necropoli reale, lo sciacallo e i nove prigionieri, che dimostra inequivocabilmente che quel luogo è stato destinato alla sepoltura di un personaggio di altissimo rango.
Sulla parte superiore della porta, dove l’intonaco si è staccato, si indovina una massiccia architrave di legno. Carter ci pratica un foro e accende una torcia. C’è un corridoio, al di là, ingombro fino al soffitto di pietrame. E’ una tomba, non c’è dubbio, protetta con la massima cura da eventuali assalti di predoni. Carter è lì da solo davanti a un varco chiuso, ultimo baluardo di un mistero che sta per essere svelato. Cerca di dominare la sua eccitazione, non può abbattere la porta per incominciare l’esplorazione dell’interno, deve attendere Lord Carnarvon, il suo finanziatore, che in quel momento si trova in Inghilterra. Fuori è già notte, è inutile procedere oltre, degli uomini fidati resteranno a sorvegliarla fino all’indomani.
“Finalmente fatta splendida scoperta nella Valle; magnifica tomba con sigilli intatti, richiusa in attesa del vostro arrivo; congratulazioni” scrive il 6 novembre in un cablogramma a Lord Carnarvon che ci raggiungerà il 23.
Nel frattempo metteremo al sicuro l’accesso alla tomba, riempiremo lo scavo fino al livello di calpestio e lo ricopriremo con i detriti di quelle baracche di operai che abbiamo demolito all’inizio di questa campagna. Nulla deve far sospettare la presenza di una tomba.
Il 24 la scala viene interamente liberata, 16 in tutto i gradini. Carter è di fronte alla porta murata ora totalmente sgombra. Ne esamina con attenzione la parte inferiore, prima nascosta dai detriti, e riconosce i sigilli di Tutankhamon. Ci siamo. Quella porta, però, è stata aperta e richiusa diverse volte dai ladri, non più tardi del regno di Ramses VI, del resto alla sua epoca risalgono le baracche degli operai che abbiamo rinvenuto al di sopra dell’area. Carter scuote la testa. Cosa si cela al di là: una tomba o, piuttosto un ripostiglio? Tra i detriti che ingombrano il vano della scala, infatti, ci sono frammenti di oggetti che recano i nomi di alcuni faraoni della XVIII dinastia: Ekhnaton, Smenkhkare, Tutmosi III, Amenhetep III, Tutankhamon.
La mattina del 25, alla presenza dell’ispettore capo del servizio alle antichità, liberiamo la porta dagli ultimi detriti, fotografiamo le impronte dei sigilli, abbattiamo il muro che chiude il vano.
Carter si trova di fronte a quello stesso corridoio, completamente ostruito da pietrame, che ha intravisto alla luce della torcia venti giorni prima. Sì, la tomba è stata più volte aperta e richiusa. Lavoriamo febbrilmente tutto quel giorno, la notte e la mattinata successiva. Non si scorge una seconda porta.
Nel pomeriggio, a una decina di metri dalla prima, ce la troviamo di fronte, in tutto simile all’altra, anche nei segni delle aperture e chiusure successive. Carter ne è sempre più convinto: si tratta di un nascondiglio che gli ricorda quello di Ekhnaton, nella disposizione della scala e degli accessi.
La risposta è a pochi passi da lui, dietro quella seconda porta. Pratica un foro nell’angolo in alto a sinistra, ci spinge una sbarra di ferro. Al di là vuoto e buio. Allarga il varco, ci infila una candela. Non si distingue nulla, gli occhi devono abituarsi alla luce fioca di quella fiammella che ora incomincia a tremare perché dalla stanza dietro l’ingresso murato soffia un alito caldo. Carter è immobile e muto. Animali, statue, il bagliore dell’oro.
Alle sue spalle Lord Carnarvon spezza quell’attesa estenuante: “Riuscite a vedere qualcosa?”
“Sì, cose meravigliose”.
Si è fatto tardi, chiudo il libro a pag. 59, Mac mi sta aspettando. Andiamo a Trevignano questo fine settimana. Ho preparato lo zaino, ci ho infilato la trowel.
La gramigna ci ha infestato le aiuole.