E’ quella storia, tra tutte le altre, che le attraversa la voce e la incrina.
La sala della biblioteca comunale di Trevignano, oggi, galleggia nel sole, sul prato dei giochi e delle grida dei ragazzi. Chiusi dall’interno i varchi dello spazio dove il tempo cammina a ritroso e precipita nel 16 di ottobre del 1943. Racconti in bianco e nero che si aggirano tra i vicoli stretti, su per i muri e dentro le stanze delle case del ghetto; parole raccolte tra le pagine e le voci dei sopravvissuti, testimoni del rastrellamento degli Ebrei di Roma.
E’ la vecchia valigia marrone di Leone Efrati, Lelletto, come lo chiamano tutti, nel quartiere, ritrovata accidentalmente, nel corso dei lavori di ristrutturazione della palestra Audace, dove continuò ad allenarsi, in via Frangipane 39, sono i suoi guantoni, il caschetto, le scarpette da pugile che piegano Stefania che sta leggendo da mezz’ora. E noi siamo lì, immobili e muti, colorati di una giornata ancora d’estate, e ci sentiamo addosso l’aria che diventa più spessa.
L’ha trovata in rete la storia di Lelletto, classe 1915, uno dei primi 10 pesi piuma del mondo, nella classifica della National Boxing Association, che varcò i confini nazionali per sfidare i suoi avversari in Francia e Negli Stati Uniti, con in tasca il futuro sorridente di stella del ring, che sceglie di fare ritorno in patria in uno dei momenti più bui, all’indomani dell’emanazione delle leggi razziali, di ridursi a vendere stracci per strada e di andare incontro alla deportazione e alla morte, riconosciuto e denunciato da un delatore, mentre è con suo figlio, il piccolo Romolo, a cui ha appena comprato un gelato, a San Giovanni.
A Pavia mi piaceva uscire con la mamma, i pomeriggi di inverno, quando si accendevano le luci su Strada Nuova e Corso Cavour, il cardo e il decumano dell’antica Ticinum.
A spasso al suo fianco, tutte e due vestite con cura – andiamo in centro – a percorrere l’itinerario consueto, davanti alle eleganti vetrine dell’Elite, su Strada Nuova, dove la mamma fa acquisti per il suo guardaroba, e da Mezzadra, sotto i portici di corso Cavour. Ci entreremo anche stasera, a fare salotto con la nostra cara Mariuccia, il vero artefice del prestigio di questo negozio di calzature, che fa provare alla mamma – ha un piede perfetto lei – tutti i nuovi arrivi.
Ma stasera, sotto i portici, poco prima di Mezzadra, hanno montato dei cartelloni in bianco e nero. Testi scritti e fotografie. La gente si ferma e guarda e legge.
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Mamma, chi sono questi scheletri che vivono? La sua mano mi accarezza senza muoversi dalla mia. Siamo inciampate – e non era previsto – e anche lei, che trova sempre le parole per dire quello che bisogna dire, con la sua voce calda e piana che non mi lascia un istante lontana dai suoi occhi, anche lei, adesso, procede a fatica, ed è subito l’orrore di un concetto che travalica ogni possibilità concessa all’umano sentire, e io sono ancora piccola ma conosco per istinto naturale cosa rende buia e interminabile la notte.
Nel 1938 le leggi razziali colpirono circa 45.000 persone e costarono la vita a 8000 ebrei italiani, catturati dai fascisti, denunciati, venduti dai vicini di casa, deportati nei campi di sterminio, “andati in gas” nei lager, una parola che in tedesco ha diverse accezioni di significato: giaciglio, deposito, accampamento. Un accampamento scientificamente progettato per incarnare la volontà di perpetrare l’annientamento dell’uomo, nella sua umanità, nella sua dignità, da cui non si può uscire, se non per il camino.
Io sono piccola e so leggere ma sono queste fotografie, questi fantasmi atoni, muti di vita che mi gridano nelle orecchie la favola cattiva del Male, incomprensibile e folle, che non ho ancora conosciuto, che nessuno mi ha mai raccontato.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Il Male che si compiace e giganteggia nella mostruosità di cui sono capaci individui mediocri, nostri comuni simili, e perciò pericolosamente, costantemente in agguato.
Leone Efrati è caricato su un treno merci, a Roma, e deportato prima ad Auschwitz, poi a Ebensee, dove trova la morte, nel forno crematorio, continua a leggere Stefania che ora governa a fatica il timbro e il tono della sua voce. Lelletto ha sfidato il kapò che ha malmenato suo fratello, internato nel suo stesso campo di concentramento. Si è battuto per l’ultima volta, si è ritrovato addosso capisquadra e guardie del lager che lo hanno percosso e lo hanno ridotto in fin di vita.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi colpisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
Sono le diciannove, Stefania termina di leggere. E’ difficile parlare. La salutiamo, la ringraziamo.
Dobbiamo fare in fretta, uscire dalla biblioteca, scendere in strada, camminare, guardare il lago che si è appena increspato, metterci qualcosa sulle spalle, è scesa la temperatura, camminare fino a quando non scenderà sera.
Che articolo meraviglioso!
Grazie, cara Stefania!