Tre giorni, dal 23 al 25 ottobre. Fa ancora caldo, quest’anno. Una lunga, estenuante estate che non si arrende all’evidenza dell’autunno astronomico, che ha ufficialmente fatto il suo ingresso un mese fa.
Mac non ha mai visitato gli scavi di Pompei ed Ercolano, non è mai salito al cratere del Vesuvio e io manco da trent’anni.
“Mi chiedi che io ti esponga la morte di mio zio, per poterla tramandare con una maggiore obiettività ai posteri. Te ne ringrazio, in quanto sono sicuro che, se sarà celebrata da te, la sua morte sarà destinata a gloria immortale…
Era a Miseno e teneva personalmente il comando della flotta. Il 24 agosto, verso l’una del pomeriggio, mia madre lo informa che spuntava una nube fuori dell’ordinario sia per la grandezza sia per l’aspetto. Egli dopo aver preso un bagno di sole e poi un altro nell’acqua fredda, aveva fatto uno spuntino stando nella sua brandina da lavoro ed attendeva allo studio; si fa portare i sandali e sale in una località che offriva le migliori condizioni per contemplare il prodigio”.
Stazione “Pompei scavi”, scendiamo dalla circumvesuviana. Il cielo sembra spazzato di fresco. Verde, opus reticulatum, accenti diversi in fila; le guide si mettono alla testa dei gruppi che si vanno formando.
Entriamo, nella mano sinistra, sotto il biglietto di ingresso, il volume “Pompei”, di Amedeo Maiuri, pubblicato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. Una signora, non so come, ne riconosce l’edizione e mi fa notare che posseggo una rarità. Ne sono consapevole, ho incominciato a leggere la storia degli scavi, le tipologie delle abitazioni e delle decorazioni in autostrada.
Cerchiamo una planimetria del sito, al punto informativo, ma nulla: dobbiamo scaricare sul telefonino, inquadrando un QR code, 148 pagine a cura del Ministero dei Beni Culturali. Follia. Gli edifici delle insulae distribuite nelle regiones, che si susseguono a scacchiera, debbono essere identificati nella loro relazione con il contesto, operazione disagevole sullo schermo di un cellulare.
Facciamo il nostro ingresso in città da Porta Marina, sul fianco occidentale della collina, che per il forte pendio non era percorsa dai carri. La Basilica, il più monumentale tra gli edifici pubblici, le sue tre navate, a un ordine di colonne quella centrale, a due quelle laterali; l’ampio rettangolo porticato del Foro, in orientamento nord-sud, il suo loggiato sopraelevato, la tribuna degli oratori, sul lato occidentale, il tempio di Giove, alto sul podio sagomato, a settentrione, e il Vesuvio velato, svelato, bruno nella mole che incombe, cenere nella terra che si raggruma sotto i nostri passi.
Quanta gente in questa città che torna in vita ogni volta, agli incroci delle insulae, sulle strade basolate, dove lasciano il segno le ruote dei carri, ai banconi dei thermopolia, sui marciapiedi, nei pistrina, i forni e pastifici. In una fotografia a colori il mio caschetto biondo di bambina che fa capolino da una macina scabra di terra lavica. E’ una giornata di sole che non è estate e io indosso orgogliosa la giacca di pelle color cuoio che la mamma mi ha comprato da Christian.
Le voci si rincorrono sulla via dell’Abbondanza, botteghe, balconi, ballatoi, graffiti, iscrizioni, motti osceni, caricature, programmi elettorali sui muri degli edifici pubblici, delle abitazioni private. L’evoluzione del vivace tessuto sociale di una città che ha raggiunto i 20.000 abitanti, letta attraverso gli stilemi architettonici che si rinnovano nell’arco di quattro secoli nelle case pompeiane: la sobrietà della domus italica e la raffinata eleganza dell’ellenismo, negli atri che si moltiplicano, nei peristilii, nei giardini, negli appartamenti che declinano l’abitare con il variare delle stagioni. Le decorazioni a stucco lucido, il gioco delle prospettive, la narrazione dell’epos, del mito, le composizioni di natura morta, con i frutti della terra e del mare, sulle pareti che alternano i rossi, le scale di azzurro, il giallo e il nero.
Anche oggi, come cinquant’anni fa, prima di tutte le altre che si susseguiranno, che ci sforzeremo di fissare nella memoria e fotograferemo, ogni volta irrimediabilmente delusi della parzialità delle immagini catturate, la Casa del Fauno, che danza bronzeo sul pavimento in opus sectile di uno degli impluvi. Preziosa nel disegno degli ambienti che si rarefanno dall’ingresso al grande peristilio, passando per l’exedra, sullo straordinario tappeto musivo che ritrae le gesta di Alessandro Magno contro le armate dell’imperatore di Persia, Dario, nella battaglia di Isso.
Siamo di nuovo per la strada, saliamo e scendiamo dai marciapiedi sui basoli scuri, lo sguardo a cercare il profilo del vulcano.
“Si elevava una nube, ma chi guardava da lontano non riusciva a precisare da quale montagna [si seppe poi che era il Vesuvio]: nessun’altra pianta meglio del pino ne potrebbe riprodurre la forma. Infatti slanciatosi in su in modo da suggerire l’idea di un altissimo tronco, si allargava poi in quelli che si potrebbero chiamare dei rami, credo che il motivo risiedesse nel fatto che, innalzata dal turbine subito dopo l’esplosione e poi privata del suo appoggio quando quello andò esaurendosi, o anche vinta dal suo stesso peso, si dissolveva allargandosi; talora era bianchissima, talora sporca e macchiata, a seconda che aveva trascinato con sé terra o cenere.
Nella sua profonda passione per la scienza, stimò che si trattasse di un fenomeno molto importante e meritevole di essere studiato più da vicino. Ordina che gli si prepari una liburnica e mi offre la possibilità di andare con lui se lo desiderassi. Gli risposi che preferivo attendere ai miei studi e, per caso, proprio lui mi aveva assegnato un lavoro da svolgere per iscritto”.
La notte tra il 24 e il 25 agosto del 79 d. C. Non è lava ma una pioggia di ceneri e lapilli. Pompei ne rimane sepolta per 6-7 metri. Plinio il Vecchio ha ricevuto poco prima di uscire di casa la lettera di Rettina, moglie di Casco, che è terrorizzata e lo prega di correre a prestarle aiuto.
“Egli allora cambia progetto e ciò, che aveva incominciato per interesse scientifico, affronta per l’impulso della sua eroica coscienza. Fa uscire in mare delle quadriremi e vi sale egli stesso, per venire in soccorso non solo a Rettina ma a molta gente, poichè quel litorale in grazia della sua bellezza, era fittamente abitato.
Si affretta colà donde gli altri fuggono e punta la rotta e il timone proprio nel cuore del pericolo, cosi immune dalla paura da dettare e da annotare tutte le evoluzioni e tutte le configurazioni di quel cataclisma, come riusciva a coglierle successivamente con lo sguardo”.
Cenere e pomici cadono fitte sulle case di Pompei, sul teatro, le terme, si depositano spesse sull’arena dell’anfiteatro. Una frana che si stacca dalla montagna impedisce alle quadriremi di Plinio di raggiungere la costa. Non sa se tornare indietro o dirigere la flotta verso Stabia, dove ha casa il suo amico Pomponiano.
“Colà, quantunque il pericolo non fosse ancora vicino, siccome però lo si poteva scorgere bene e ci si rendeva conto che, nel suo espandersi, era ormai imminente, Pomponiano aveva trasportato sulle navi le sue masserizie, determinato a fuggire non appena si fosse calmato il vento contrario. Per mio zio invece questo era allora pienamente favorevole, cosi che vi giunge, lo abbraccia tutto spaventato com’era, lo conforta, gli fa animo…consuma la sua cena con un fare gioviale…
Nel frattempo dal Vesuvio risplendevano in parecchi luoghi delle larghissime strisce di fuoco e degli incendi che emettevano alte vampate, i cui bagliori e la cui luce erano messi in risalto dal buio della notte. Egli, per sedare lo sgomento, insisteva nel dire che si trattava di fuochi lasciati accesi dai contadini nell’affanno di mettersi in salvo e di ville abbandonate che bruciavano nella campagna. Poi riposò di un sonno certamente genuino…. Senonchè il cortile da cui si accedeva alla sua stanza, riempiendosi di ceneri miste a pomice, aveva ormai innalzato tanto il livello che, se mio zio avesse ulteriormente indugiato nella sua camera, non avrebbe più avuto la possibilità di uscirne.
Svegliato… si ricongiunge al gruppo di Pomponiano e di tutti gli altri…insieme esaminano se sia preferibile starsene al coperto o andare alla ventura allo scoperto. Infatti, sotto l’azione di frequenti ed enormi scosse, i caseggiati traballavano…come se fossero stati sbarbicati dalle loro fondamenta… D’altronde all’aperto c’era da temere la caduta di pomici, anche se erano leggere e corrose; tuttavia il confronto tra questi due pericoli indusse a scegliere quest’ultimo… Si pongono sul capo dei cuscini e li fissano con dei capi di biancheria; questa era la loro difesa contro tutto ciò che cadeva dall’alto”.
Sta per consumarsi la notte, l’alba del 25 agosto è già apparsa nel mondo ma a Pompei, Ercolano e Stabia l’aria è satura di nero e Plinio, Pompeiano e il suo gruppo di famigliari e amici si dirigono alla spiaggia, per tentare l’impossibile fuga sul mare sconvolto.
“Colà, sdraiato su di un panno steso a terra, chiese a due riprese dell’acqua fresca e ne bevve. Poi delle fiamme ed un odore di zolfo che preannunciava le fiamme spingono gli altri in fuga e lo ridestano. Sorreggendosi su due semplici schiavi riuscì a rimettersi in piedi, ma subito stramazzò, da quanto io posso arguire, l’atmosfera troppo pregna di cenere gli soffocò la respirazione e gli otturò la gola, che era per costituzione malaticcia, gonfia e spesso infiammata.
Quando riapparve la luce del sole…il suo cadavere fu ritrovato intatto, illeso e rivestito degli stessi abiti che aveva indossati: la maniera con cui si presentava il corpo faceva più pensare ad uno che dormisse che non ad un morto”.
Per le strade di Pompei è l’ultimo atto. Il nostro giorno sta volgendo al tramonto. Abbiamo salito la strada di Stabia e raggiunto le ultime vestigia scoperte di recente, un thermopolium con un bancone decorato a vivaci figure: una Nereide, due germani reali appesi a testa in giù, un gallo e un cane al guinzaglio. Siamo Mac ed io, e la città sta cadendo nel silenzio. Nell’orto dei fuggiaschi non c’è più nessuno.
Tredici persone, adulti e bambini, si sono rintanate in casa. Fuori piovono lapilli. Ed è nell’istante in cui l’istinto della sopravvivenza li spinge fuori, in un disperato tentativo di fuga, che cadono l’uno dopo l’altro, nella posa in cui rimarranno per sempre impressi nella nostra memoria, proprio oggi, 24 ottobre, 2000 anni esatti dopo l’eruzione che Plinio il Giovane, nella sua lettera indirizzata a Tacito, fa risalire al 24 agosto, “il nono giorno prima delle calende di settembre”.
A confutare la tradizionale datazione, sarebbe un’epigrafe in carboncino, sulla parete di un’abitazione venuta da poco alla luce, in cui è citato il 17 ottobre. L’interpretazione del suo contenuto è duplice ma non è questo ciò che importa. Il materiale con cui è stata scritta è evanescente e dunque la testimonianza deve per forza risalire a pochi giorni prima dell’eruzione.
La data tradizionale del 24 agosto, attribuibile, pertanto, a un errore commesso nel corso di una trascrizione successiva, era già stata messa in dubbio dal rinvenimento di frutti tipicamente autunnali e di una moneta in cui si fa riferimento alla quindicesima acclamazione di Tito imperatore, avvenuta dopo l’8 settembre del 79 d.C.
E’ notte, ormai. Siamo esausti. Troviamo posto sul vagone di una circumvesuviana affollata, turisti tra i turisti sulla via del ritorno.
Piacevolissimo alla lettura.
Sei sempre una conferma.
Brava!
La mia casa è quasi pronta per organizzare incontri culturali.
Baci
Grazie, Rita cara