“E’ pronto il caffè?”
Era la domanda di rito, preceduta da una vivace e perentoria scampanellata, che l’amico o il parente di turno si sentiva rivolgere al citofono da mio padre, in visita inattesa. Una sorpresa o, meglio, secondo il lessico della sua famiglia, un’imprrovvisata, pratica consueta, amata in particolare da mio nonno, che prevedeva il momentaneo trasferimento di un intero nucleo umano dalla propria all’abitazione di un altro.
Il caffè, in realtà, veniva immediatamente convertito in pranzo o in cena, grazie ai tesori alimentari che dagli sportelli delle dispense, si riversavano copiosi sulla tavola prontamente apparecchiata: verdure sott’olio, salami e salsicce, mozzarelle, provole e caciocavalli, pane casareccio, biscotti, torte e liquori distillati in casa.
Il visitato, in altre parole, si presentava all’appuntamento inaspettato compiutamente provvisto di ogni ben di dio, sorridente, vociante e pronto a far festa.
L’improvvisata, a memoria d’uomo, non ha mai impensierito alcun Italiano originario del sud, imperturbabile, inattaccabile nella profusione delle derrate alimentari di cui si è rifornito, frutto di tradizionali pratiche, tramandate da generazioni di donne eternamente indaffarate.
L’improvvisata terrorizzava mia madre. La donna più generosa del mondo, impareggiabile padrona di casa, che si profondeva, senza risparmiarsi mai, nella preparazione di pietanze raffinate da offrire a chi riceveva, perennemente insicura delle sue innegabili doti culinarie, insoddisfatta dei piatti che, per sua ammissione, non erano paragonabili agli stessi che aveva cucinato, qualche tempo prima, per noi tre.
L’improvvisata, dicevo, la spiazzava. Le specialità del nord, come il gorgonzola dolce, il taleggio o il salame di Varzi, celebrate eccellenze lombarde, non incontravano il gusto dei palati dei parenti del sud, avvezzi a sapori più decisi e alla piccantezza del peperoncino e del pecorino. Il burro e il parmigiano della mantecatura vellutata del risotto erano destinati a soggiacere di fronte alla sfrontatezza del cacio sulla pastasciutta; l’aroma speziato e rotondo del brasato a quello mediterraneo e selvatico del capretto cotto sulla brace. La partita era persa in partenza.
Mia mamma, figlia unica, preparava da sola o, tutt’al più, con qualche ausilio di bassa manovalanza, da parte mia, marmellate e verdure sott’olio che non avrebbero mai potuto competere in quantità con la produzione industriale cui metteva mano mia nonna, affiancata dalle figlie e da qualche comare, sua vicina. Si aggiungeva, poi, dettaglio non trascurabile, che i tempi di conserva delle nostre preparazioni casalinghe erano inversamente proporzionali alle manifestazioni fulminee della golosità paterna e mia. I vasetti, riposti nelle retroguardie dei pensili, venivano fatalmente scovati e presi d’assalto, ergo, al momento dell’improvvisata, a mia mamma non restava che constatare con amarezza la penuria delle scorte domestiche a disposizione.
Il porcaio Eumeo era un uomo del sud e, come tale, non si scompose affatto quando, seduto accanto al recinto delle stalle dei maiali, che aveva innalzato di sua iniziativa, a regola d’arte, con pietre di cava e pali di legno di quercia, disposti in cerchio, con tutto l’amore che portava al suo padrone, lontano ormai da vent’anni, quando, dicevo, udì il latrare minaccioso dei cani che difendevano la proprietà e si levò da sedere per soccorrere un vecchio mendico, che si stava avvicinando alla sua capanna, a cui senza indugio chiese di entrare ed accomodarsi, sulle frasche che aveva ammucchiato e ricoperto con una pelle di capra. “Straniero, non è mio costume – venga pur uno più malconcio di te – trattar male gli ospiti … entriamo nella capanna, vecchio; e dopo anche tu, saziato di pane e di vino il tuo cuore, dimmi di dove arrivi e quanti affanni sopporti … Si diresse ai porcili dove le stirpi dei porchetti eran chiuse; ne scelse due, li portò in casa, li uccise, li scottò, li fece a pezzi e li infilzò negli spiedi e, cotti che li ebbe, li mise davanti a Odisseo, caldi, sui loro spiedi, e li cosparse di bianca farina; poi nel boccale di legno versò il vino profumo di miele, e gli sedette di fronte, incoraggiandolo, e disse: “Mangia ora ospite, questa è roba da servi, porchetti. I porci ingrassati se li divorano i pretendenti, senza riguardo all’occhio dei numi, senza misericordia”.
L’ospite, quel vecchio avvizzito, canuto, ricoperto da un lurido cencio – così la dea Atena, sua protettrice, lo aveva cangiato, toccandolo con una verga, per impedire che venisse riconosciuto e consentirgli di scagliare feroce la sua vendetta sui Proci e su coloro che lo avevano tradito – altri non è che Odisseo, ma il fedele, generoso Eumeo ancora non lo sa.
In nome della xenìa, dell’ospitalità, che è sacra per un greco e protetta da Zeus, il buon guardiano dei porci apre la porta della sua capanna, offre il suo giaciglio allo sconosciuto che si è presentato alla sua soglia, si prende cura di lui e gli offre quello che ha, senza neanche chiedergli il nome o la provenienza.
La xenìa imponeva di accogliere, lavare, vestire e nutrire chiunque avesse chiesto ospitalità, come fece Alcinoo, re dei Feaci, nei confronti dell’eroe itacese, che sua figlia Nausicaa aveva condotto a corte, dopo averlo incontrato, naufrago, sulla spiaggia, vicino al fiume dove si era recata, insieme alle ancelle, a lavare le vesti.
Una mattina, era quasi estate, mio nonno decise di farci un’improvvisata, insieme alla nonna, la zia Vittoria, lo zio Andrea, i miei tre cugini. Era domenica, i negozi di alimentari non erano aperti, come succede oggi, e la mamma preparò uno stupendo risotto freddo con i fagioli borlotti che aveva surgelato, servito su un piatto ovale di acciaio.
Un risotto alla lombarda che fu apprezzato da tutti quei palati del sud. Non ricordo quale pietanza seguì ma quella giornata fu indimenticabile.
Bello anche fare questi viaggi dei ricordi, divertente Maria Paola!