Roma ed Epidauro: come un serpente sgusciò via da una trireme e si fermò su un’isola.

isola tiberina

Era quasi primavera, di lì a pochi mesi Livia avrebbe compiuto quattro anni. Quella mattina decidemmo di condurla a conoscere la Porticus Octavia, il teatro di Marcello e l’isola Tiberina. A spasso con la Bambi, come negli anni ’70 io, con la mia mamma, alla scoperta di Roma.

Era la mia seconda visita nella capitale e mentre la prima non fu altro che un assaggio, fugace e amaro per il furto della nostra automobile, carica dei bagagli di un intero mese di ferie al mare, con tenda e accessori vari al seguito, quella volta fu meravigliosamente diverso.

Il viaggio di lavoro di papà si trasformò nell’occasione di una breve e indimenticabile vacanza. Furono giorni di sole in pieno inverno, di focaccine ripiene di prosciutto e formaggio, di cappuccini, a me solitamente interdetti, per via dei disturbi intestinali di cui soffrivo da sempre, e che bevevo avidamente, immune da qualsivoglia effetto collaterale, a colazione, su via Nazionale, appena fuori dal nostro albergo, il Quirinale, di quell’eleganza un po’ demodé da vecchia gloria del cinema muto.

Avrei raccontato a Livia la città, come aveva fatto la mia mamma con me. E l’isola Tiberina, dalla forma di una nave antica, una trireme, era la meta perfetta per una bella storia da narrare, sedute sul travertino, gli occhi alla corrente del Tevere  e ai resti del Ponte Sublicio.

Era il 293 a. C. Una terribile pestilenza stava seminando la morte per le strade di Roma. Bisognava fare qualcosa e al più presto. Si consultarono i Libri Sibillini, custoditi nel tempio di Giove Capitolino, che la tradizione diceva essere stati venduti dalla Sibilla Cumana ad uno dei due Tarquini. Il responso fu inequivocabile e il senato decise di inviare un’ambasceria a Epidauro, nel Peloponneso, dal VI sec. a. C. il più prestigioso centro del culto di Asclepio, l’Esculapio dei Romani, che si era andato affermando rapidamente anche al di fuori dei confini della Grecia.

La trireme fece ritorno, portando in un cesto il serpente sacro al dio che, durante la navigazione lungo il Tevere, all’altezza dei Navalia, il porto militare sulla riva del Campo Marzio, sgusciò via, nuotò fino all’isola Tiberina e scomparve. Si era manifestata la volontà del dio: quello sarebbe stato il luogo in cui avrebbe dovuto sorgere il suo tempio.

Mostrai a Livia la chiesa di San Bartolomeo la cui posizione coincide con quella del santuario di Esculapio, inaugurato nel 289 a. C., che ospitava sotto i suoi portici, un vero e proprio ospedale, come ad Epidauro. Iscrizioni, anche in lingua greca, che ricordano guarigioni miracolose, ex-voto dei fedeli, alcuni dei quali di poco posteriori all’edificazione del tempio, furono rinvenuti nell’alveo del Tevere. Quel serpente determinò per sempre la destinazione di quel piccolo pezzo di terra in mezzo al fiume.

Passarono i secoli, Roma cadde, risorse, non fu più la stessa ma sulla sua isola, separata dall’abitato, si continuò a curare gli ammalati, come testimoniano il Fatebenefratelli e l’ospedale israelitico, istituiti rispettivamente a metà del 1500 e nel 1600.

A Livia quella storia piacque moltissimo e volle mettersi sulle tracce di quello che restava di un tratto della prua, in travertino, sulla punta orientale dell’isola, con il serpente arrotolato intorno a un bastone, scolpito nella mano di Esculapio. Vestigia della prima metà del I sec. a. C. quando, probabilmente, si procedette a una sistemazione generale dell’isola.

Livia immortalò quella mattinata di primavera con una serie di fotografie, le prime che scattò, con la Nikon F55 che avevo regalato a Mac.

Ci siamo ritornati qualche giorno fa. A Roma fa caldo anche se l’estate non è ancora ufficialmente iniziata. Sfogliamo le pagine della guida archeologica di Filippo Coarelli, tanto per rinverdire i vecchi fasti universitari. Vorremmo scendere a cercare i resti della prua di travertino ma non è consentito l’accesso, peccato. Ripeto a memoria a Mac la storia di quel serpente, sacro ad Asclepio, che scappò furtivamente, nuotò in queste acque torbide e disparve tra la vegetazione dell’isola 2300 anni fa.

Un culto antico che sa di luce e di tenebre, di vita e di morte, legato a doppio filo con la città di Epidauro la cui storia diventa quella del suo santuario, a partire dal momento in cui Atene, adottando il culto di Asclepio, lo eleverà a divinità panellenica. Nel IV sec. a. C. il centro peloponnesiaco era all’apice della sua popolarità, frequentatissimo dai fedeli del divino guaritore che vi accorrevano anche in occasione delle feste Asclepiee e Apollonie.

Allo stesso periodo risale lo straordinario teatro progettato da Policleto il Giovane, sintesi perfetta della filosofia architettonica greca applicata al luogo deputato alle manifestazioni culturali più popolari in terra greca, non solo nelle grandi città, un edificio pubblico di prima necessità, la cavea ricavata dal fianco di una collina, con il suo corridoio intermedio (diàzoma), le scale di accesso ai vari settori (kerkìdes), la perfezione del cerchio dell’orchestra, lo sfondo della scena e l’esemplare applicazione dei principi acustici. Ad Epidauro, chi si fosse seduto nell’ultima fila avrebbe potuto distintamente sentire il rumore provocato dallo strappo di un foglio di carta nell’orchestra.

Ci provammo anche noi, un pomeriggio tardo, in mezzo a una manciata di giorni che strappammo all’ultima settimana di agosto e alla prima di settembre, quando all’impronta, passate in rassegna, senza troppa convinzione, mete svogliate, scartate con altrettanta disinvoltura, decidemmo all’unisono che sarebbe stata Atene, ancora una volta, e una rapida incursione nel Peloponneso, a Micene ed Epidauro.

Eravamo in pochi e ognuno celebrò il suo saggio, in mezzo al cerchio dell’orchestra. Livia rimase seduta sulla sommità della cavea, Mac snocciolò compunto la formazione della Lazio vincitrice dello scudetto della stagione 1973-74; io sussurrai “Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta…”

Ritornammo per un’Argolide di verde monte e mare che ritagliava la linea di costa, tra le luci che cominciavano ad accendersi sulla tela della sera.

 

 

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