Quarantaquattro anni dopo

Aldo_Moro_

Io mi ricordo un gran silenzio, precipitato sulle giornate di metà marzo che cominciavano ad allungarsi, su noi che, terminati i compiti, qualche volta scendevamo in cortile con i pattini a rotelle.

Il 16 marzo 1978, l’edizione straordinaria del TG1, alle 9.58, interrompe le trasmissioni: “Il Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, è stato rapito questa mattina alle 9.10 da un commando di terroristi, mentre usciva dalla sua abitazione al quartiere Trionfale, per recarsi a Montecitorio dove, alle 10.00, era fissato l’inizio del primo dibattito parlamentare sul nuovo governo Andreotti. Moro era scortato da cinque persone. I terroristi hanno fatto fuoco. Secondo le prime notizie, quattro dei cinque uomini di scorta, due Carabinieri e due agenti di pubblica sicurezza, sarebbero morti. Non si sa se il quinto sia rimasto ferito e non si sa nemmeno se Moro sia rimasto ferito … Roma è già stretta in uno stato d’assedio, nella speranza che i rapitori non riescano ad allontanarsi”.

Morirà anche il quinto uomo della scorta.

Nel corso della diretta di Paolo Frajese da via Fani, la camera rimbalza sui Carabinieri che stanno occupandosi dei rilievi, sull’automobile con la portiera aperta, sui corpi degli uomini della scorta sotto il telo bianco, sui fori dei proiettili sul parabrezza e sulle portiere, sui bossoli sparsi sull’asfalto.

Io ho tredici anni, sono a scuola, e non so nulla di quanto sta accadendo. All’ora di pranzo, a casa, in cucina la piccola GBC in bianco e nero manda in onda la tragedia che si è consumata poche ore prima. Incominciano e finiscono i giorni, la primavera, ormai, trionfa giù in cortile e sul rivone erboso che cade nella Vernavola, e un intero paese è sotto scacco.

La lunga prigionia del Presidente del primo partito d’Italia, in una cella 3 metri per 1, accorcia grottescamente la statura degli uomini dello Stato, affievolisce la voce di papa Paolo VI: “Io scrivo a voi, uomini delle Brigare Rosse: restituite alla libertà, alla famiglia, alla vita civile l’Onorevole Aldo Moro. Io non vi conosco e non ho modo d’avere alcun contatto con voi. Per questo vi scrivo pubblicamente, profittando del margine di tempo che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciata contro di lui, Uomo buono e onesto, che nessuno può incolpare di qualsiasi reato, o accusare di scarso senso sociale o di mancato servizio alla giustizia e alla pacifica convivenza civile… vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni … Uomini delle Brigate Rosse, lasciate a me, interprete di tanti vostri concittadini, la speranza che ancora nei vostri animi alberghi un vittorioso sentimento di umanità …”

E’ il 21 aprile. Com’è invecchiato il Papa, come sono invecchiati tutti in questi giorni che stanno volgendo alla fine l’esistenza di un uomo che è rimasto solo. Com’è spesso questo silenzio che mi insegue giù nel cortile dove io cammino e sono spenta.

Lo scorso 8 marzo, al Teatro Vascello, sono ritornata indietro di quarant’anni, a quel 16 marzo 1978, ai 55 giorni di prigionia, al 9 maggio.

“Con il vostro irridente silenzio” è l’atto unico in cui Fabrizio Gifuni, dopo un breve ma incisivo excursus che ricostruisce le fasi salienti del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, legge alcune tra le lettere scritte durante la prigionia e le pagine del memoriale del Presidente della DC.

Cento missive, circa, di cui soltanto alcune furono recapitate ai destinatari, in formato dattiloscritto, e 237 fogli fotocopiati dalle BR – perduto il testo originale – furono rinvenute il 9 ottobre 1990, in un’intercapedine della base terroristica milanese di via Monte Nevoso, già attentamente, così si disse, perquisita il primo ottobre 1978, quando vennero recuperati 78 fogli dattiloscritti, che comprendevano 29 trascrizioni di lettere e 49 di testi che sembravano far riferimento al processo subito da Moro di fronte al cosiddetto tribunale del popolo.

Trent’anni della storia della nostra Repubblica, dal 1946 al 1978, in pagine scritte, riviste, corrette; risposte alle domande dei brigatisti e riflessioni che, dopo la sentenza di morte, emessa nella seconda metà di aprile, si estesero a questioni delicate della storia della politica interna e di alcune sue personalità di spicco, e delle relazioni internazionali del nostro paese, in una sorta di riconsiderazione dell’esperienza vissuta in trent’anni di impegno civile.

Gifuni incomincia a leggere: lettere e pagine del memoriale. Senza soluzione di continuità i commiati delle prime vanno a confluire nelle frasi del secondo; la moglie Eleonora, Noretta, il Ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, la figlia Maria Fida, il Segretario della DC, Benigno Zaccagnini, la figlia Agnese, il Santo Padre, il Presidente del gruppo parlamentare della DC, Flaminio Piccoli, il figlio Giovanni, il Segretario delle Nazioni Unite, Kurt Waldheim, il suo capo-ufficio stampa e portavoce, Corrado Guerzoni, il Presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, Riccardo Misasi, il nipote Luca.

Dentro il perimetro di un quadrato tracciato sul palcoscenico, i fogli sparsi per terra, un tavolino e una sediola, arrangiati in un angolo.

Le parole del presidente della DC, di cui i compagni di partito e le testate giornalistiche mettono in dubbio l’autenticità: Moro non è Moro, lo stile, la grafia non sono senz’altro i suoi. “Scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia”, risponde triste e amaro a chi, anche tra i suoi amici, si è affrettato a mettere in dubbio l’autenticità materiale e formale delle sue lettere, “senza né conoscere né immaginare la mia sofferenza … come se io scrivessi su dettatura delle Brigate Rosse. … Ma tra le Brigate Rosse e me non c’è la minima comunanza di vedute” (lettera recapitata alla Democrazia Cristiana il 28 marzo 1978).

Certo, la grafia di Moro è illeggibile, lo sa bene Corrado Guerzoni, suo portavoce, che deve decodificarla al personale della segreteria, incaricato di dattiloscrivere gli appunti.

E in quei 55 giorni la grafia diventa la voce di Moro, ne tradisce gli stati d’animo e deve essere inequivocabilmente intesa, senza possibilità di dubbio, fuori dall’angustia di quelle mura, specie nelle missive indirizzate ai rappresentanti delle istituzioni e nelle pagine del memoriale. Moro ricopia le sue minute per essere leggibile e i brigatisti, nel dattiloscrivere i suoi testi, sbagliano, male interpretano o, addirittura, omettono alcune parole che non sono riusciti a comprendere. Per politici e giornalisti i testi sono stati redatti dai sequestratori e al prigioniero è stato imposto di copiarli.

Del resto sin dal primo comunicato delle BR del 16 marzo, che parla del processo cui sarà sottoposto Moro, ci si comincia a preoccupare di ciò che potrebbe trapelare dalle sue dichiarazioni; screditare sin dall’inizio la sua attendibilità si presenta come la soluzione più semplice, da cogliere al volo.

“La Repubblica”, “L’Unità”, il “Corriere della sera” ipotizzano che Moro sia stato drogato, costretto ad assumere farmaci, sottoposto ad una dura e raffinata tortura, che si stia trovando, in altre parole, in uno stato di profonda costrizione morale e fisica, che depriva il suo messaggio di ogni autenticità.

E Moro scrive e scrive, nella “prigione del popolo”, e le sue parole premono urgenti sulla carta, rimbalzano sulle pareti di quel buco 3 metri per 1 e gli ritornano indietro nei commenti irriverenti del mondo di fuori. “Tengo a precisare di dire queste cose in piena lucidità senza aver subito alcun coercizione della persona; tanta lucidità almeno, quanta può averne chi è da quindici giorni in una situazione eccezionale, che non può avere nessuno che lo consoli, che sa cosa lo aspetti. Ed in verità mi sento anche un po’ abbandonato da voi”, insiste con Zaccagnini, nella lettera recapitatagli il 4 aprile e, sempre intorno alla stessa data, in una pagina del memoriale, ritorna sullo stesso argomento:  “lnnanzitutto io tengo, davanti a tante irrispettose insinuazioni, affermare che io, non fatto oggetto di alcuna coercizione personale, sono in pieno possesso delle mie facoltà intellettuali e volitive e che quel che dico, discutibile quanto si voglia, esprime il mio pensiero. Certo non posso dimenticare di essere qui a causa di un’azione di guerra, da venti giorni, nel corso dei quali ho vissuto, com’è immaginabile e inevitabile, in circostanze eccezionali. Ma non solo sono stato debitamente assistito, ma ho potuto lavorare e farmi le mie convinzioni lucidamente … In precedenti messaggi, non coartato, ma facendo anzi riferimento ad idee precedentemente espresse, ho accennato all’eventualità di scambio di prigionieri politici”.

Moro, prigioniero politico, e io ho tredici anni e capisco ben poco di tutto questo. Gli uomini dei palazzi della politica sono grigi e seri. Mi sono familiari ma adesso mi sembrano tutti cattivi com’è crudele la Ragion di Stato che continuano a citare, perché porterà all’esecuzione della condanna di un uomo già morto che indossa una camicia bianca e mostra un giornale, sullo sfondo di una stella a cinque punte. Moro che chiede al segretario del suo partito se non sia possibile prospettare “la liberazione di prigionieri di ambo le parti, attenuando la tensione nel contesto proprio di un fenomeno politico. Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile … Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la DC che nella sua sensibilità ha il pregio d’indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili”.

Il tempo corre, si assottiglia. “Pacatamente direi a Cossiga che sono stato ucciso tre volte, per insufficiente protezione, rifiuto della trattativa, per la politica inconcludente ma che in questi giorni ha eccitato l’animo di coloro che mi detengono”.

La lettera non è recapitata, verrà ritrovata nel covo di via Monte Nevoso. E’ già stata emessa la sentenza di morte. Rimane poco. Il vuoto si allarga, si fa strada il dubbio: le missive indirizzate ai famigliari non saranno mai state consegnate. Gli addii e tutto l’amore. Bisognerà ricominciare daccapo.

Al nipotino “Mio carissimo Luca, non so chi e quando ti leggerà questa lettera del tuo caro nonnetto. Potrai capire che tu sei stato e resti per lui la cosa più importante della vita. Vedrai quanto sono preziosi i tuoi riccioli, i tuoi occhietti arguti e pieni di memoria, la tua inesauribile energia, Saprai così che tutti ti abbiamo voluto un gran bene ed il nonno, forse, appena un po’ più degli altri. Per quel poco che è durato sei stato tutta la sua vita”;  ad Agnese “Ora è probabile che noi siamo lontani o vicini in un altro modo. Ebbene, credimi che ti sono vicino più che mai, che ti stringo forte a me, che desidero per te pace e felicità … Ti amo tanto, Agnesina carissima e ti ringrazio del tuo sorriso sempre così largo e della tua dolce carezza della sera”; ad Anna Maria “Sei sempre la mia piccolina della gamba destra, mentre Agnese era per parte sua quella della gamba del cuore. Tempi felici Niente ha potuto annullare la grandezza dell’amore. A qualsiasi età i figli sono i nostri piccoli. E tu sei la mia piccola”; a Giovanni “Mio carissimo Giovanni … ti devo trattare da uomo anche se non riesco a distaccarmi dalla tua immagine di piccolino, tanto amato e tanto accarezzato … che avrei voluto accompagnare un po’ più a lungo nella vita … Tu studia, prega, opera per il bene, aiuta la famiglia e il piccolo Luca che mi fa finire nell’angoscia”; a Maria Fida e al genero Demetrio Bonini “Figli amati vi riscrivo nel forte dubbio che le mie precedenti lettere d’addio siano state, chissà perché, sequestrate. Volevo dirvi (ed ora ve lo dico, purtroppo meno bene) tutto il mio amore, tutta la mia stima, tutto il legame con voi. Vi ho già detto che con Luca mi avete dato la cosa più grande della mia vita … So la fragilità di Fida che ha bisogno di essere aiutata. Ho cercato di farlo con più gioia sia dato immaginare … Siate uniti nell’amore e nella famiglia, senza alcuna distrazione. Non c’è cosa più grande di questa”; alla moglie, Noretta “Ora vorrei abbracciarti tanto e dirti tutta la dolcezza che provo, pur mescolata di cose amarissime, per avere avuto il dono di una vita con te, così ricca di amore e di intesa profonda … Ci rivedremo, ci ritroveremo, ci riameremo … A te debbo dire grazie, infinite grazie per tutto l’amore che mi hai dato”.

L’ultima lettera, recapitata alla moglie Eleonora, il 5 maggio: “Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile … Vorrei capire con i miei occhi piccoli mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”.

Ad uno ad uno sono caduti i giorni.

Nel bagagliaio di una Renault rossa, in via Caetani, è il corpo accartocciato di un uomo.

In televisione è solo grigio di un timbro diverso.

 

 

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Emanuela
2 anni fa

Cara Mariapaola, ero con te a teatro, la sera dell’8 marzo scorso……le tue parole hanno scavato, tracciando netta l’angoscia nei ricordi coetanei, di noi due, bambine tredicenni. L’angoscia di una Nazione Intera, e la sua spaventata incredulità…..l’Attesa di speranza dei primi giorni di prigionia che divenne poi la resa di un uomo giusto, morto addolorato e abbandonato ben prima che avvenne il suo assassinio.
E tu, scrivendo come scrivi hai il dono di rendere vivida la eco di un fatto avvenuto più di quaranta anni fa!