Mai più?

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24 febbraio 2022. E’ ancora guerra.

 

“In Ucraina scorrono fiumi di sangue e di lacrime. Non si tratta solo di un’operazione militare ma di guerra che semina morte, distruzione e miseria… La guerra è una pazzia, fermatevi, per favore, guardate questa crudeltà!”

Papa Francesco all’Angelus, domenica, 6 marzo 2022.

 

Oggi pubblico solo manciate di frasi e alcuni versi, a braccio, di tempi e autori diversi.

Non voglio aggiungere altro.

 

“Allora tutta Troia mi sembrò sprofondare

tra le fiamme e crollare! Come quando sui monti

i contadini a gara si sforzano di abbattere

un orno antico infierendo sul suo tronco con molte

scuri: l’immensa chioma tremolante minaccia

di cadere e oscilla ai colpi, finché vinto

dalle ferite l’albero a poco a poco geme

per l’ultima volta e strappato dal suo pendio rovina.

Discendo per le strade sconvolte e con l’aiuto

celeste riesco a passare tra il fuoco e tra i nemici;

le frecce mi rispettano, le fiamme si ritirano.

Ma quando giungo alla soglia dell’antica dimora

familiare, mio padre, che volevo portare

per primo in salvo sui monti, rifiuta di vivere ancora

dopo la fine di Troia e soffrire l’esilio.

“Voi – mi dice – che avete il sangue giovane e sano,

voi che siete nel pieno delle forze, fuggite…

Mi è bastato aver visto una volta

la mia città distrutta, la rovina, le stragi…

Dovunque l’orrore e insieme gli stessi silenzi atterriscono

l’animo…

Procedo e rivedo il palazzo e la rocca di Priamo.

Già nei vuoti portici, nel recinto sacro a Giunone,

Fenice e il crudele Ulisse, scelti come custodi,

vigilavano sulla preda. Qui da ogni parte si ammassano

i tesori di Troia strappati dai sacrari incendiati,

e le mense degli dei e i crateri d’oro massiccio

e le vesti depredate. Fanciulli e donne atterrite

in lunga fila all’intorno.”

Virgilio, “Eneide”, libro II, vv. 624 e ss. 29-19 a. C.

 

E’ la fine, la città è stata presa con l’inganno, è divorata dalle fiamme. Fumo, grida, migliaia di storie spezzate, negato il futuro. Bisogna affrettarsi, fuggire.

 

“Invano cerchi tra la polvere,

povera mano, la città è morta.

E’ morta: s’è udito l’ultimo rombo

sul cuore del Naviglio…”

Salvatore Quasimodo, “Milano, agosto 1943” (“Giorno dopo giorno”, 1947).

 

Le bombe sulla città. Tutto si sbriciola, diventa cenere. Anche la speranza.

 

“Edizione della sera! Della sera! Della sera!

Italia! Germania! Austria!”

E sulla piazza, lugubremente listata di nero,

si effuse un rigagnolo di sangue purpureo!

…Dal cielo lacerato contro gli aculei delle baionette

gocciolavano lacrime di stelle come farina in uno staccio…

Alla città accatastata giunse mostruosa nel sogno

la voce di basso del cannone sghignazzante

mentre da occidente cadeva rossa neve

in brandelli succosi di carne umana.”

Vladimir Majakovskij, “La guerra è dichiarata”.

 

E’ scoppiata la prima guerra mondiale. Gli strilloni, per le strade, le edizioni straordinarie dei quotidiani. E il cielo è ferito, e l’uomo calpesta la pietà.

 

 “A ogni passo botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le strade, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di patimenti…

Ma forse il più brutto e insieme il più compassionevole spettacolo erano i contadini, scompaginati, a coppie, a famiglie intere; mariti, mogli, con bambini in collo, o attaccati dietro le spalle, con ragazzi per la mano, con vecchi dietro. Alcuni che, invase e spogliate le loro case dalla soldatesca, alloggiata lì o di passaggio, n’eran fuggiti disperatamente…

Finalmente se n’andavano; erano andati; si sentiva da lontano morire il suono de’tamburi o delle trombe; succedevano alcune ore d’una quiete spaventata; e poi un nuovo maledetto batter di cassa, un nuovo maledetto suon di trombe, annunziava un’altra squadra”.

Alessandro Manzoni, “I promessi sposi”, cap. XXVIII.

 

E’ il 1628, l’Europa sta combattendo la guerra dei trent’anni; in Lombardia se ne consumano gli episodi marginali. Nei dintorni del lago di Como, dal suo vertice settentrionale sino al territorio di Lecco, calano i 28000 lanzichenecchi dell’imperatore Ferdinando II.

 

“Questa guerra ci brucia le case. Ci semina di morti fucilati piazze e strade. Ci caccia come lepri di rifugio in rifugio. Finirà per costringerci a combattere anche noi, per strapparci un consenso attivo. E verrà il giorno che nessuno sarà fuori della guerra – né i vigliacchi né i tristi né i soli. Da quando vivo qui coi miei, ci penso spesso. Tutti avremo accettato di far la guerra. E allora forse avremo pace”.

Cesare Pavese, “Prima che il gallo canti”, 1948.

 

Il protagonista, dopo la caduta di Mussolini, si rifugia a casa dei suoi, nelle Langhe che, però, non possono sottrarsi alla Storia, alla sua realtà di scontro cruento che annienta l’uomo.

 

 “Vi sono dei soldati russi, là! Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. – Datemi da mangiare (in russo, nel testo) – dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è il solo rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. – Spaziba – dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. – Pasausta (prego) – mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell’ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra è venuta con me per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco.

Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’essere stata tra gli uomini… Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto di più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’un per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a sapere restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere”.

Mario Rigoni Stern, “Il sergente sulla neve”, 1953.

 

Faccia a faccia con il nemico, in un’isba in mezzo all’inverno, che diventa per un momento l’emblema di una storia possibile se l’uomo si ricorda di essere umano.

 

 

 

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