Usus e consuetudo. Dimestichezza, consuetudine e familiarità nei rapporti, imprescindibili pietre di costruzione dell’amicizia. Ancora oggi, a distanza di tanto, in questo tempo che ci ha congelato i gesti naturali dell’affetto verso le persone care, ripenso spesso a questi due termini usati da Cicerone nel suo dialogo filosofico sull’amicizia, il “Laelius”, composto nella primavera del 44 a. C., poco più di un anno prima del suo assassinio, presso Formia, per mano dei sicari di Antonio.
Cicerone, uomo politico senza dubbio controverso, talora accusato di opportunismo, che si dibatte nella drammatica complessità del tempo in cui si trova a vivere, fatalmente travolto dalle sue stesse convinzioni, dal desiderio di restaurazione delle antiche tradizioni repubblicane, anche se la Storia sta procedendo nella direzione opposta e ne dichiara il sostanziale superamento.
Il tempo del suo “Laelius” si dipinge dei colori nostalgici di un passato e di un ambiente, quello degli Scipioni, in cui il valore dell’amicizia si sostanzia del senso profondo dell’incontro di anime, di una solidarietà che opera per l’affermazione dei nobili principi di un’etica universale.
Cicerone, escluso ormai dalla vita politica, nel 44 a. C., è un uomo malinconico che vive di ricordi e dedica il suo libro a Tito Pomponio Attico, l’amico di tutta la vita.
Amicizia, valore indissolubile perché presuppone la virtù, che rende capaci di amare e degni di essere amati; comunione senza riserve, aliena dall’interesse, dall’utilità. Ci si deve adoperare per l’amico come si farebbe per se stessi. Le amicizie vanno strette senza precipitazione, solo con coloro che ne sono degni, noi stessi dobbiamo dimostrare di esserlo.
La conoscenza, l’intimità, l’affiatamento di lunga data per la compiuta realizzazione di un’unione tra gli uomini che riassume in sé tutti i beni desiderabili, la cui presenza rende felice la vita.
L’altro giorno ho ripreso tra le mani quel volumetto che traducemmo al liceo con la Prof.ssa Quartiroli, e ho riletto con attenzione l’introduzione alla sua quinta ristampa, datata 1981, a firma di Luigi Lombardi Vallauri, che scriveva come nell’ultimo decennio, vale a dire negli anni ’70 del secolo scorso, avesse avuto modo di constatare una maggiore apertura all’incontro e al rapporto con gli altri da parte dei giovani che, precedentemente, al contrario, sembravano essere assorbiti da “una problematica per così dire solitaria di perfezione individuale, di autotrascendimento, di ricerca della propria vocazione (o della grandezza, o dell’assoluto)”.
I giovani degli anni ’70 avevano manifestato apertamente la loro insofferenza a tutte quelle barriere di nazionalità, razza, condizioni economiche e sociali, confessioni religiose, ideologie politiche, tabu sessuali, antinomie dettate da categorie morali e via discorrendo, che avevano fino ad allora impedito l’avvicinamento e la fusione degli animi e dei corpi.
Processo che, però, non si sarebbe potuto produrre secondo dinamiche spontanee e non avrebbe dovuto prescindere da quelle esperienze di rapporto, già maturate nel corso della storia ma sempre attuali e condivisibili, perché connaturate alla condizione umana, come l’amicizia.
La riflessione approfondita su quell’esperienza di rapporto diventava proprio in quegli anni, come mai prima, necessaria, in particolare se condotta attraverso un itinerario tra testi letterari e filosofici dell’antichità, primo tra tutti il “Laelius”.
Era il tempo della nostra adolescenza, quando Cece, Michele, Camillo, Luca, Marcello, la Cecilia ed io, in classe, eravamo il “barrio”, ed io ero innamorata dell’amicizia. Studiavamo parecchio e un giorno a settimana ci vedevamo: la sera del sabato, per una pizza, un panino, una passeggiata in centro; la domenica pomeriggio, per una gita in bicicletta sul naviglio, a Torre d’Isola, o per una cioccolata in latteria. E poi il cinema della nuova generazione di registi a Hollywood, gli spettacoli in cartellone al teatro Fraschini, le mostre a Milano, le manifestazioni sportive.
Quando veniva l’estate c’erano la piscina e i campi da tennis del Club, cui era iscritto Camillo e dove noi ci imbucavamo, e se i genitori di Michele partivano per Forte dei Marmi il barrio, con l’aggiunta di qualche accolito, si riuniva a casa sua, faceva la spesa e preparava la cena.
In quella casa di via Sesia ho ascoltato per la prima volta “La voce del padrone”, “Bollicine”, ho ballato una disinvolta rivisitazione di un tango, con tanto di casqué, con Marcello, e ho riso sino alle lacrime per le prodezze goliardiche dei miei amici.
Quando partii per Roma, al termine del primo anno di università, Cece in una lettera bellissima mi scrisse del filo rosso che ci tiene legati, a dispetto delle distanze.
Quando ho riletto, come scrivevo, l’introduzione di Luigi Lombardi Vallauri, ho avuto l’impressione che il tempo si fosse ripiegato su se stesso. La tensione verso l’affermazione di una perfezione personale di contro all’abbattimento delle barriere per la realizzazione della comunione collettiva mi sembra riproporsi, seppure, naturalmente, sotto differenti sembianti, ai giorni nostri, dominati da una sostanziale solitudine delle giovani generazioni e da un preoccupante individualismo. Nell’apparente facilità e immediatezza nello stabilire relazioni tra i cittadini di un universo globalizzato, in nome di quell’enorme ipertesto interattivo che è la rete, l’amicizia non è il risultato di quell’usus e consuetudo di cui parla Cicerone, bensì la mano che si tende virtualmente, la prima volta, per presentare all’altro il proprio profilo personale.
Ricordo il giorno in cui, seduti al tavolino di un bar dell’EUR, Marco mi parlò di Emanuela, sua amica di infanzia. Voleva che la conoscessi, disse, come più avanti avrebbe fatto con Mac.
E quella sera, in un locale, saturo di musica dal vivo e fumo, arrivò con lei. Fu immediato. La mia amica, Milla. Milla mia.
Paolina mia, hai scritto di me, di Milla tua! Ci siamo incontrate così, con immediata e profonda naturalezza……. e ogni volta ci riconosciamo. La fortuna di aver incontrato una amica che sarà per sempre…percezioni millenarie tra noi mentre insieme annientiamo la solitudine.