Non mi sentivo ancora pronta. Lo sarei mai stata? Sarebbe giunto il momento in cui proprio io avrei provato inconfutabile il desiderio di diventare madre? Ne sarei stata capace?
Avevo già compiuto trent’anni, avevo incontrato Mac, mi ero sposata, ma quel momento mi sembrava ancora molto lontano. Tutto ciò che desideravo, anche già durante il viaggio di nozze, lo ricordo distintamente, era tornare a casa a vivere la più straordinaria delle normalità, al suo fianco, a fare la donna. Riempire il minuscolo appartamento di via Mertel di tutte le cromie di una diade perfetta. Lui ed io.
Non c’era posto per un bambino.
Ma poi nella mia vita irruppero Ida Ramundo, maestra elementare, e il suo Useppe e le pagine di Elsa Morante sulle quali mi misi a correre, dimenticandomi di prendere fiato.
Useppe, quel bimbetto minuscolo in tutto il corpo fuorché negli occhi, grandissimi, che non avevano ancora conosciuto il mare ma che ne inghiottivano le più remote profondità e trasognavano allo straordinario spettacolo della vita che rinnova il suo mistero, nel buco squallido di una casa popolare, in ogni filo d’erba del suo primo prato, un pomeriggio, a spasso con Nino, Ino, il fratello maggiore, che gli sembrava “accentrasse su di sé tutta la festa del mondo”; occhi che sapevano leggere la luce arcana delle cose, distinguere ad una ad una le voci del silenzio; occhi che ammutolirono e precipitarono attoniti davanti all’orrore dei vagoni merce, carichi di deportati, alla stazione Tiburtina, in braccio ad Ida.
Useppe è il figlio dell’umile, scialbo corpo della vedova Ramundo, stuprato dalla guerra laida e bugiarda, il bambino capace di vedere le stelle, le “ttelle”, come dice lui, anche in uno sputo.
Useppe mi schiuse dentro un pensiero nuovo. Forse quello era il tempo. Avrei potuto essere madre.
Quell’estate fu un viaggio in Francia, in automobile. La meta, una località sulla carta che Mac puntò con convinzione: Yport, incastonato tra due alte falesie, in Normandia, tra Fécamp ed Étretat. Partimmo sotto il morso della canicola, sulla mia Ford Fiesta blu scuro metallizzato, una spietata fornace che ci adagiò sulla costa normanna la sera del giorno successivo.
Al ritorno, apparecchiai le mie cose all’autunno e incominciai a raccogliere i rametti per il nido. Non sapevo se possedevo il tocco, di sicuro non quello che avevo riconosciuto unico in mia mamma.
Insegnavo a Ladispoli e adoravo i miei ragazzi che avrei accompagnato a giugno al traguardo dell’esame di terza media.
Alcune complicazioni sorte subito alle prime settimane di gravidanza mi costrinsero mio malgrado a rimanere a casa. Sola, confinata in una pausa dal tutto che di fuori seguitava a girare. La reclusione decuplicava i pensieri e li appesantiva di inerzia.
Un giorno la pittrice Antonella Cappuccio, che avevo conosciuto un paio d’anni prima a casa di un amico, mi chiamò e mi propose di comporre una poesia a introduzione della sua mostra personale, a Castel Sant’Angelo, di lì a qualche mese. La proposta mi onorò, mi intrigò, mi agitò. Cosa avrei potuto scrivere?
Se solo avessi potuto uscire e incominciare a camminare, tutto si sarebbe rivelato esatto ai miei occhi, mi sarei sbarazzata della zavorra del dubbio, sopra i passi le idee si sarebbero sostanziate di purezza.
Nella mia mente mi chiusi la porta di casa alle spalle e disegnai parole che mi condussero fuori all’aria aperta.
Livia mi stava crescendo dentro e le stagioni sarebbero state fresche e antiche. Sarei diventata madre, come la prima luce della Terra.
La poesia si sarebbe intitolata “Se una mattina, camminando” perché mi trovavo sul principio della strada nuova, senza sapere esattamente dove mi sarei condotta, sarebbe stata la materia viva di tutto quello che in me era passato ed è presente: la bambina con i capelli corti alle lezioni di danza classica; le foglie del vecchio pioppo di Federico Garcia Lorca, che intonano sottovoce la sua morte; i capelli ricciuti di Ettore, lordi dell’odio sordo di Achille; le Pleiadi e la Luna e la solitudine della notte di Saffo, il grido che lacera la gola di Ecuba; il padre dal cuore di fanciullo felice per la prima viola che ha spezzato, sul muro di fronte, le catene dell’inverno. E in mezzo tutto il tempo che corre attorno alle rotte del pensiero.
Se una mattina camminando
Se una mattina, camminando,
ne avessi potuto scorgere il profilo,
avrei librato le parole
tra le pieghe di stagioni.
Mi venne voglia di cantare,
di cedere alla danza
le piume dei miei passi
e se mi fosse stato lecito sognare
t’avrei raccolto a mazzi
pensieri variopinti.
La luna sussultò
funamboli neofiti.
Lo sguardo dei miei anni dipanò tra i lemmi,
i raziocini,
accanto a chiose, sui teoremi,
nelle strofe di terzine.
Io che avevo tutto sopito m’inoltrai,
forte del canto,
nelle curve di una mano,
della fronte di mio figlio
che apre e libera il mattino.
Io che non avevo appreso dagli aedi il cominciare
mi ritrovai colori
ricamare di poeti notti intere.
Spalancai sulle rotte dei filosofi
orizzonti di fraseggi siderali.
Omero mi cercò, Saffo mi perse;
Saba mi diede il gesto, Lorca il silenzio.
Spazi ondulati, arche di luce,
parabole di storia, terre emerse.
Sulle mappe dei miei giorni
echeggiarono bagliori di lontane percezioni.
Le parole dei cantori.
Quell’inno alla Poesia, all’ineluttabile Bellezza sarebbe stata per Livia la prima forma compiuta di sua madre che ancora non aveva visto.
Nacque dopo la prima decade di luglio, rinunciò per sempre al perimetro perfetto del suo mondo d’acqua e quando l’infermiera la condusse dalla nurserie a me, su un carrello, insieme agli altri nati, volse il capo, sicura e imprevedibile, al sussurro del mio richiamo.
Memoria d’Uomo, bagliori. Lontane percezioni.
Bellissima ❤️
Grazie, cara!❤
Risvegli in me emozioni mai sopite, dolci abbracci e note di futuro.
Non ci sono parole che possono catturare , aggiungere un solo atomo alla grande poesia del poeta MP. Langerano , purezza assoluta , anima trasparente!
Cara Antonella, grazie, che splendide parole! È un’esperienza travolgente lavorare al fianco di un’Artista multiforme come te!