Mi piace tirar tardi la sera, non sopporto l’idea che il giorno finisca, e allora leggo, mi informo sulle ultime notizie delle agenzie giornalistiche, cerco approfondimenti sul film che ho appena visto o mi picco di ritrovare quella tal notizia su quel tal fatto o persona che si rivela indispensabile proprio in quel momento, prima di chiudere gli occhi. Oppongo una cocciuta resistenza ad oltranza, insomma, al sonno che mi appesantisce le palpebre. E, di conseguenza, faccio fatica a svegliarmi alle sei o, meglio, lo considero senz’altro contrario alla natura umana, la mia, nella fattispecie, nonostante sia convinta che sia il mattino ad avere l’oro in bocca. Sì, senza esagerare, però.
Assomiglio a mia mamma. Leggeva romanzi fino a tardi, quando la casa era tutta sua.
Papà, anche prima di trasferirsi a Roma, quando era costretto ad uscire prima delle sette, per evitare il traffico verso il centro, cenava e ci salutava al massimo verso le dieci e trenta, non aspettava il termine del film o del programma televisivo che avevamo selezionato per il dopocena, compreso quello del sabato.
La mamma ed io, invece, eravamo spettatrici appassionate della programmazione televisiva di seconda serata, quando venivano trasmesse le opere immortali del cinema. Così ho conosciuto Marlon Brando, a otto anni. E lo trovai bellissimo anche con quella somatica messicana che il posticcio del trucco gli disegnava sul volto, gli inspessiva di nero le sopraciglia e i baffi in “Viva Zapata!”.
Il primo canale della RAI mandava in onda ogni settimana “Lunedì film”, con la sigla di Lucio Dalla e degli Stadio, in cui un uccello spiegava le sue ali di celluloide sui simboli delle più note case di produzione, e dedicava cicli ad attori e registi che avevano fatto la storia della settima arte, come quelli intitolati alla produzione di Vittorio De Sica e Francois Truffaut o a Gregory Peck, Jean Gabin, Paul Newman e Katharine Hepburn, solo per citarne alcuni.
Erano quelli appuntamenti irrinunciabili per noi due che ci accomodavamo in soggiorno e ci preparavamo a gustarci lo spettacolo.
Talvolta ero costretta ad interrompere la visione – dovevo terminare di studiare – e la mattina mi svegliavo con il sottile piacere di fare colazione al racconto delle ultime scene del film della sera precedente.
Le abitudini che ci cuciamo addosso ci accompagnano per la vita, anche quando il nostro ruolo è cambiato e non siamo più soltanto figli ma diventiamo anche genitori ed è così che con Livia il rito si è riproposto sostanzialmente identico, compresi i titoli dei film.
A sei anni conosceva le interpretazioni più celebrate di Cary Grant, da “Ero uno sposo di guerra” a “La casa dei nostri sogni”, da “Caccia al ladro” a “Notorius” e grande era il suo stupore quando a scuola scopriva che nessuno dei suoi compagni ne aveva mai sentito parlare.
Al cinema, in particolare, era ed è dedicata la sera della “nostra giornata”. In occasione dell’uscita del Beaujolais nouveau, Mac e i compagni degli anni del liceo imbandiscono la cosiddetta cena del Bojo, nella villa al mare del nostro caro amico Leonardo, evento culminante di un sabato di ritrovate complicità e confidenze, giunto alla sua trentesima edizione, occasione di convivialità che si protrae sino al mattino della domenica. Livia ed io, in contemporanea, celebriamo “la nostra giornata”, appunto, che rispetta un cerimoniale che, nel corso degli anni ha subito, com’è immaginabile, qualche ineludibile ma marginale aggiustamento. Ebbene, la sera, mentre si consuma la cena a base delle nostre pietanze preferite, apparecchiate di fronte al televisore, ci scorrono davanti agli occhi i fotogrammi dei film della vecchia Hollywood o degli anni d’oro di Cinecittà. Di solito, dopo la lunga passeggiata in centro, dalla mattina fino al tardo pomeriggio, la nostra programmazione, che ha inizio verso le 19.00, riesce a comprenderne due.
L’ultimo sabato abbiamo varcato la mezzanotte con il buon vecchio, caro Hitchcock di “Marnie” e “Rebecca la prima moglie”. Le nevrosi, i misteri, le sottili trame del dubbio affascinarono la mia Livia ancora bambina quando, un pomeriggio d’estate, scoprì il genio del maestro del brivido, a tutt’oggi uno dei suoi registi preferiti, e anno dopo anno, la condussero alla scoperta del suo universo cinematografico. Si trattava di “Io ti salverò”, la prima pellicola che porta sullo schermo le teorie freudiane sulla psicoanalisi e l’interpretazione dei sogni e della scena in cui si sostanzia l’intera vicenda narrata: l’incubo ricorrente che tormenta John Ballantine, alias un giovanissimo, disturbato Gregory Peck, in cui l’inconscio si rivela nell’inquietante e surreale simbologia visionaria di Salvador Dalì: occhi che scrutano, dipinti sui pesanti tendaggi di una sala da gioco, forbici gigantesche, ombre che si allungano, uomini senza volto, oggetti colti nella loro deformità.
Anch’io ne rimasi turbata ma mia mamma era al mio fianco e mi parlava, e così feci io con Livia.
Sono passati gli anni, cambiate le città e le case. Sempre più rare le occasioni di dividere il divano con mia mamma e guardarci insieme un film. L’ultima volta è stato a marzo, l’anno il 2017, il film “Le ricette della Signora Toku”. Una pellicola giapponese uscita nel 2015.
Il protagonista, Sentaro, in un piccolo chiosco alla periferia di Tokio, prepara e vende doraiaki, dischi di pan di Spagna ripieni di marmellata di fagioli dolci, ai suoi clienti che sono pochi e sempre gli stessi.
Lavora senz’anima e la marmellata con cui farcisce i doraiaki è di produzione industriale. I debiti che ha contratto in passato e che lo assillano gli impediscono di lasciare quel posto ma tutto è destinato a prendere una piega decisamente inattesa, un giorno che i ciliegi sono in fiore e al chiosco si presenta una donna anziana, in cerca di lavoro.
Il nostro ultimo film. La mamma ed io, stese sul divano, sotto la copertina rosso lacca, a fiori, a stare una accanto all’altra dentro a quella sera, che ci inghiottiva inconsapevoli e si faceva silenziosa e nera.