Sorpresa!

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Amo le sorprese, fin da quando ero bambina, e mia mamma riusciva sempre a sorprendermi.

Ora che ne scrivo, ripenso a lei che fa muovere appena l’aria, quando si avvicina, e ti guarda e ti senti compiutamente amata, sotto il sussurro del suo tatto.

Non le chiesi mai nulla in dono, non era mia abitudine, e guardavo con un certo fastidio i miei coetanei, figli di amici, che facevano i capricci, si gettavano per terra, gridavano parole scomposte e sincopate, tra i singhiozzi forzati, e venivano trascinati via, lontano dall’oggetto dei loro desideri, dalle madri spazientite.

Io amavo l’attesa, la sospensione in cui galleggiano le ipotesi, in assenza di indizi, nella risoluta volontà di astenermi dalla tentazione di interpretare segni o allusioni di sorta, che mi avrebbero potuta condurre ad indovinare il regalo che avrei ricevuto, o tanto meno di mettermi sulle sue tracce, dato che, specie a Natale, il pacchetto misterioso veniva religiosamente occultato in un posto sicuro sino al mio risveglio, quando, ancora in pigiama, correvo in soggiorno davanti all’abete addobbato.

Erano i miei gli anni di Cicciobello che faceva letteralmente impazzire tutte le bambine e che, segretamente, toccava le corde anche del mio cuore. Ma non lo confessai mai e quel Natale, avevo cinque anni, ricevetti una cucina, composta su una parete di latta a L, su cui erano disegnate le piastrelle, completa di lavastoviglie e lavatrice, con i pensili marroni laccati e la cappa che, come il forno, si accendeva e imitava il rumore dell’aspiratore. I fuochi del piano di cottura, girando i pomelli, simulavano il gas e nei mobiletti erano riposte miniature in plastica e cartone di prodotti alimentari: dalla piramide del latte alle confezioni della pasta e del riso e allo scatolame.

Era bellissima, nessuna delle mie amiche ne possedeva una e del resto la mamma sceglieva sempre per me balocchi inconsueti e bambole raffinate, come quella a piedi nudi, con un vezzoso vestitino di tulle bianco e verde chiaro, adornato di piccoli fiori, e due ali da libellula. Un’incantevole fata dei prati.

Lasciammo Voghera per trasferirci a Pavia, ero diventata ormai una ragazza e in occasione del mio sedicesimo compleanno, mi andavo ripetendo da qualche settimana, forse papà mi avrebbe regalato il motorino. Ma non osavo spingermi troppo oltre, ricacciavo indietro questo pensiero e aspettavo.

La mattina fatidica, con la scusa di prendere l’acqua minerale, papà mi chiese di andare in garage. Scesi le scale di corsa, girai intorno al palazzo e per dilatare ulteriormente l’attesa rallentai il passo sino a quando mi ritrovai di fronte alla porta. Girai la chiave nella serratura e sollevai la basculante, con movimenti esasperatamente rallentati, trepidante.

Era lì, al centro del garage, bianco fiammante, il mio Ciao Piaggio PX, il modello appena uscito. Il mio motorino. Ci andavo in giro ovunque, una volta, avevo 19 anni, con Michele, arrivammo fino al ponte sulle barche a Bereguardo. Era versatile e leggero e io lo guidavo con i piedi appoggiati sul telaio, usando i pedali solo per avviare il motore.

Un pomeriggio, Michele e Cece, di passaggio davanti all’Università, lo riconobbero parcheggiato discosto dagli altri e con il pennarello, i burloni, mi lasciarono un messaggio di saluto, firmato “i soliti inioti”. I miei più cari amici, compagni inseparabili del liceo, che si divertivano a fare gli scemi…

Erano gli ultimi giorni a Pavia, di lì a qualche settimana ci saremmo trasferiti a Roma e George, così avevo chiamato il mio Ciao, in onore di George Harrison, divenne il mio inseparabile compagno di viaggio. Abitavamo in una traversa di via Fiorentini, negli appartamenti della società per cui lavorava papà e ogni mattina, in periodo di scavi archeologici, inforcavo George e raggiungevo alle 7.30 la Meta Sudans, la fontana di Domiziano, tra l’arco di Costantino e il Colosseo, smantellata durante il ventennio nel corso dei lavori per la costruzione della via dei Trionfi.

Me lo rubarono un pomeriggio di sorda emicrania, al ritorno dallo scavo, davanti al bar delle Province, nella piazza omonima, dove mi ero fermata per un caffè. Solo qualche istante, un’imperdonabile leggerezza – non lo avevo legato – e George si volatilizzò.

Sono trascorsi tanti anni ma sostanzialmente non sono cambiata, e il 17 giugno del 2019 è stata una sorpresa il regalo per il mio compleanno, e io le smantello sempre le sorprese di Mac. Ma questa volta ho impedito a me stessa di pensare, di architettare congetture, ho voluto che il pacchetto rimanesse intatto, fino alla fine, al momento di scartarlo. Per Mac.

I giorni sono pochi – partenza venerdì, all’ora di pranzo, e ritorno lunedì sera, e forse è questo il primo ingrediente di una pazzia, di un gioco da donare a una bambina.

Le Canarie? Avrei desiderato portarci Mac e Livia, a Pasqua, per spezzare l’aria e la routine. Capri? Ne ho parlato tante volte. Ma non voglio indovinare, non ne domando indizi.

La valigia si chiude la sera del giovedì, alla fine di una giornata esausta, e c’è Livia e Mac che si confrontano e contraddicono e mi fanno stipare abiti che parlano di sole e passeggiate.

Le Canarie, per l’appunto, penso io, e mi affretto ad aggiungere il K-Way.

Sono, siamo stanchi, Mac ed io reduci dal traffico dell’ora di punta, in centro; Livia è andata al mare, ed è cotta di sale, e domattina ci dobbiamo svegliare presto: alle 8.15 partiremo da casa.

Colazione veloce e Fiumicino.

Tutto fila liscio, padre e figlia si portano al seguito una non vedente, risolutamente decisa a rimanere tale sino all’imbarco. Orecchie tappate, sguardo a terra, un “blablabla” a ripetizione, al momento dell’annuncio del volo, in italiano, inglese e…

La gente in fila accanto a me tradisce un abbigliamento che parla slavo…russo? Ungherese? E poi abbiamo passato l’area controllo passaporti – no, io ho la carta di dentità, me l’ha fatta sotto al naso, Mac – e la guardia è ragguagliata del fatto che si tratta di un viaggio a sorpresa, non mi si deve svelare nulla.

Prendiamo posto in aereo e ancora una volta, al nostro ingresso, un simpatico steward e hostess sue colleghe vengono a sapere che a bordo sono io la passeggera inconsapevole della meta, e lui si diverte a confondermi le idee con destinazioni esotiche e, a ogni passaggio, differenti – è la prima volta in vent’anni di servizio che gli capita una sorpresa così ben architettata – “ma davvero non lo ha ancora capito?” Sono certo che qualunque sia la meta, lei sarebbe comunque felice!” – e ci fa i complimenti, perché è evidente la gioia che ci dà il nostro amore.

Trascorrono tre ore e a cinque minuti dall’atterraggio. Aeroporto di Pulkovo. San Pietroburgo è l’arcano che si svela.

 

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Angelo Mari
2 anni fa

Paolina, come sempre, delicatamente, ci porti lontano, in un mondo di bei ricordi.
Vorrei regalarti sempre sorprese…..ma poi…. devi raccontarle però!

Marilena Di Vano
2 anni fa

Rendere felici i nostri compagni di vita è la priorità dell’amore che ci unisce, mostrarlo con una meravigliosa sorpresa e la cosa più bella che si possa fare!❤️