Mille chilometri

Italia

Sono figlia di due Italie.

Quella di mia mamma, dove sono nata, larga, felice di verde perenne di pianura, rifilata dai canali e dai pioppi che cantano al vento, e rane e bisce d’acqua, che sgusciano dall’ombra al cospetto del fiume che si impigrisce nelle lanche, tra i canneti. La Pianura Padana, operosa di cascine di mattoni rossi e grassi come la terra.

Quella di mio papà, dove ho trascorso qualche Natale e scorci di vacanze estive, gialla di arenaria, di castelli e torri, scabra di calanchi e gravine e maestosa, atavica di boschi di querce fitte e millenni di grano che si cava a mani nude, e campi modellati sulle colline che muovono la terra e la spingono fino all’orizzonte. La Basilicata, arsa dalla sete e scrigno raro, fiera e modesta, squassata e mite.

Vivo a Roma da oltre trent’anni e sono sempre sporadiche e fugaci, purtroppo, le occasioni del ritorno in una o nell’altra delle mie patrie, così lontane e geneticamente differenti ma inevitabilmente il nord, Voghera, dove sono nata, e Pavia, dove ho studiato fino al primo anno di università, e il sud, Tricarico, il paese natale di papà, mi albergano dentro e sono per me casa.

A Voghera vissi i primi 6 anni della mia infanzia. Felice, di una gioia rotonda senza spigoli, sempre insieme a Daniele e Nicola. A Pavia, dove in seguito ci trasferimmo, c’erano tanti bambini che si riversavano a giocare nell’ampio cortile del comprensorio in cui vivevo, e sulla riva erbosa che scivolava verso la Vernavola, un rivo o, meglio, una roggia che nasce a San Genesio, e convoglia le sue acque nel Ticino, dopo un breve corso di 15 chilometri. Ma non erano i gemelli e io soffrivo di nostalgia.

A Tricarico giocavo con i miei cugini, i figli della zia Vittoria, la sorella di papà, e i bambini di via Marconi, la strada in salita dove abitavano i miei nonni paterni. Correvamo su e giù, non avevamo le biciclette o i pattini a rotelle; ricordo un carrettino su cui impazzava velocissimo mio cugino Gianni e qualche altro piccolo temerario, membro della sua banda. Giocavamo a nascondino, cercando convulsamente ogni  angolo remoto, nel tempo che il barattolo di latta, che a turno calciavamo, impiegava per arrestarsi.

All’ora di pranzo e di cena da ogni uscio aperto ci raggiungevano i richiami delle madri, prolungati, cantilenanti, che non di rado si infiorettavano di minacce, oscure per me che non conoscevo il dialetto locale, di fronte all’indugio dei ragazzini.

Il sole pioveva a picco sulla testa e rimbalzava sul pavé, per investirci di nuovo con tutta la sua esuberanza; tutto scintillava, colorato a smalto: il cielo di azzurro profondo, i pomodori e i peperoni da essiccare, rossi e prepotenti. Io non avrei potuto neanche guardarli – ero molto delicata, da bambina, soffrivo di febbri acute e disturbi intestinali – ma non mi trattenevo e rubavo una dopo l’altra quelle piccole sfere croccanti che cedevano ai morsi e mi inondavano di succo dolcissimo. Tutto gridava sotto quel sole implacabile.

Mi rifugiavo nella penombra fresca della cucina della nonna, la stanza più spaziosa della casa, o al primo piano, nella camera riservata a me, la mia preferita, con un grande tappeto appeso alla parete, che ritraeva un paesaggio montano, con boschi e un cervo che si abbeverava.

Nessun bambino per la strada. Le mosche cercavano di superare la barriera delle frange delle tende appese, subito oltre la porta di ingresso che, mi ricordo, aprivamo e chiudevamo in tutta velocità, per sbarrare l’accesso al caldo e agli insetti.

Un anno, d’inverno, frequentavo il terzo anno di liceo classico, trascorremmo il Natale a Tricarico. Partimmo di notte.

A Pavia nevicava. La mattina ero stata interrogata dal De Paoli in Storia. Non la studiavo mai e mi ritrovavo a fare nottata per recuperare. Quella notte avevo studiato dalla Cecilia.

Eravamo andate a teatro per l’Enrico IV, con Giorgio Albertazzi.

Tornammo a casa, esaltate dallo spettacolo, non avevo affatto voglia di mettermi a studiare, sentivo l’urgenza di continuare a ragionare sul fascino struggente di quel testo.

La camera della Cecilia nella casa di viale Matteotti era molto spaziosa, larga, con una luce morbida, un lampadario di carta di riso, un bel tavolo di legno, mensole e libri.

Di quella sera ricordo l’ultimo sforzo, la resistenza al sonno perché, comunque, l’indomani, dopo l’interrogazione, la scuola, le solite cose, saremmo partiti per Tricarico e io avrei dormito tutto il viaggio, come sempre, sdraiata sul sedile posteriore, per mille chilometri, tra il buio delle ultime ore della notte e quello del pomeriggio invernale.

In provincia di Foggia pioveva. Passammo per Candela dove anni prima, in piena estate, fui colta da una febbre violenta che costrinse i miei genitori a viaggiare con i finestrini chiusi, sotto il sole implacabile.

Pioveva e l’acqua dilavava le facciate gialle d’arenaria delle case, le dissolveva nella fanghiglia delle strade senza asfalto, con i marciapiedi appena accennati. Tutto indistinto sotto la pioggia.

Un senso di approssimazione, di derelitto.

Arrivare a Tricarico, d’inverno, con l’odore delle stufe per strada, i panzerotti con i ceci delle feste di Natale, la neve, forse, e la passeggiata fino in piazza senza tutta la gente dell’estate. E Antonio che esce di casa, proprio quando passo davanti al suo portone, io che vengo da mille chilometri a nord.

L’avevo conosciuto l’agosto precedente, sotto la casa della nonna. Io avevo quindici anni e un paio di pantaloncini da tennis bianchi, Sergio Tacchini, che indossavo sempre perché mi ci sentivo bene. Ero come mi piaceva essere, non una femmina come le altre, quelle che i ragazzi fissano, appostati addosso  ai muretti, per strada, che si mettono in mostra, che ingaggiano disinvolte con i maschi la tenzone del corteggiamento, che conoscono a memoria il copione. Mi mettevano a disagio.

Ma qui comincia un’altra storia.

 

 

 

 

 

Subscribe
Notificami
0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments