Livia aveva appena compiuto quattro anni. La guardavo spingersi da sola, sull’altalena, all’ombra dei platani, ad Orvinio. Si distendeva con grazia sul sedile, imprimeva, morbida, lo slancio.
A Voghera il parco giochi era di fronte al laboratorio di Garbarini, il sarto di fiducia di papà, ma noi bambini non potevamo raggiungerlo a piedi da soli. Daniele, Nicola ed io, poi, preferivamo scorrazzare sotto il viale e in cortile, dove tutti gli occhi dei maschietti erano per la mia fiammante Porsche rossa a pedali, su cui sfrecciavo irraggiungibile e fiera.
Il parco più desiderato dai bambini vogheresi era quello di Salice Terme. Per arrivare all’area attrezzata, si attraversava il bosco, vastissimo ai miei occhi di allora, su un sentiero tra gli alberi maestosi, che io percorrevo in accelerazione, precedendo i miei genitori, per andarmi a conquistare il posto più ambito: uno dei sedili dell’altalena.
Mi ci portavano i miei genitori il sabato e la domenica e, talvolta, nei giorni infrasettimanali, mia madre, in bicicletta, sulla sua Susy blu. Io seduta sul sellino posteriore.
“Tieni le gambine larghe!”, mi raccomandava. Mi concentravo, non era semplice, la posizione era scomoda ma i piedi dovevano rimanere rigorosamente lontani dai raggi.
Se penso ad un rumore della mia infanzia, la mia mente corre immediatamente al crocchiare ritmato delle molle del sellino nero della bicicletta di mia madre.
Faceva fatica, pensavo, ero cresciuta, e l’amavo ancora di più, la mia ragazza bellissima che scappava con me per portarmi a Salice Terme, in mezzo a tutti quegli alberi, steccati e sentieri tra i prati. Qualche scoiattolo, talvolta. Era lunga la strada.
A Salice Terme si andava anche la sera, quando ci si voleva lasciare alle spalle il caldo afoso e la monotonia dell’estate in città. In piazza, sotto ai portici, c’era il gelato di Sala, il profumo di crema alla vaniglia, le sedie e i tavolini all’aperto, un sorso di birra, una volta, ma ero già grande.
Al bar del parco si giocavano interminabili partite al bigliardino, quando ci andavamo con l’Emilia e Rinaldo o altri amici dei miei.
Salice era un posto tranquillo, c’era anche una clinica dove venne ricoverato mio nonno. Una struttura di lusso, sembrava un albergo, ma mio nonno morì perché sbagliarono diagnosi.
Del resto – avevo dieci anni – non potevano essere seri i medici in un posto come quello che non era neanche un ospedale, pensavo.
Mio nonno morì solo, di notte. Eravamo tutti molto lontani, mille chilometri a sud. Si sposava zio Pasquale, il fratello minore di mio padre, con Gina, una ragazza vivace di Tricarico che mi piacque subito per la sua allegria.
Per le nozze mia madre aveva scovato in una strada di Potenza, nella vetrina di un tipografo, se non sbaglio, la poesia che lei, ragazzina, aveva recitato in occasione delle nozze di un parente. Pensò che sarebbe stato carino se io, a mia volta, l’avessi recitata agli zii, durante il rinfresco nuziale.
Avevano affittato la sala da Costantino, al bar Italia, sotto casa di mia nonna, sulla strada che porta in piazza. C’erano un sacco di invitati.
Noi parenti dello sposo, sobri, austeri. Io indossavo una gonna marrone scuro a ruota, con una camicetta di maglina beige, a fiorellini marroni, e calzettoni di filo color crema.
Gli amici e i parenti della sposa erano una folla variopinta. Le donne quasi tutte con i capelli sciolti sulle spalle, con abiti lunghi anni ’70 verdi, blu elettrico, rossi; gonne a campana sino alle caviglie con fiori o cinture di paillettes in vita, camicie lucenti di raso, jabot, scialli, tacchi altissimi e zeppe.
Bimbe con pizzi e capelli acconciati con nastri.
Io avevo i capelli cortissimi, li odiavo. Odiavo quel mio modo di essere magra come un’ombra, insignificante, pallida e tesa.
Avrei voluto avere capelli lunghi e ondulati. I miei erano biondi e sottili, impalpabili, e ogni anno me li facevano tagliare cortissimi, si sarebbero rinforzati, dicevano, non stavo bene con quei quattro spaghetti in testa. E io guardavo tutto il mondo intorno a me che portava i capelli lunghi e fluenti che a metterci le mani dentro ti si riempivano le dita.
Venne il mio turno, recitai la poesia. Dopo pochi versi mi bloccai, nella mia mente il vuoto e tutta quella gente che aspettava che terminasse l’impasse, che il silenzio si colmasse, che tutto ritornasse a fluire nella festa.
Sorrisi, incitamenti, mia madre, zia Gina e io, sola, nel centro che si chiude. Qualcosa è cambiato, mio nonno è lontano e muore e chiama il mio nome. Paulen.
Come abbiamo potuto lasciarlo così? A lungo ho immaginato la notte nella sua stanza, in quella clinica di Salice Terme. La nonna convinse i miei a lasciarmi a Tricarico e io non ho potuto salutarlo.
I bambini non devono conoscere certe cose, la morte è oscena. Ma avevo già visto mia nonna materna distesa nella bara, a Voghera, avevo cinque anni. Mi prese in braccio la mamma e io le baciai la fronte.
Mi svegliai nel lettone dei miei, sotto lo sguardo dolcissimo della zia Vittoria. Avevano telefonato dalla clinica, la notte, mamma e papà avevano dovuto partire immediatamente perché le condizioni del nonno si erano aggravate.
Le sue parole si infrangono ad una ad una, come bolle di sapone. Non voglio ascoltare menzogne, è morto, lo so, l’ho sentito ieri sera quando la festa si è fermata e la poesia e noi tutti, lì, improvvisamente, non abbiamo avuto più un senso.
Mi tengo distante dai giochi, in disparte da tutti, dobbiamo partire, al più presto, tornare a Pavia. Non faccio i capricci, voglio correre da mia madre, ha bisogno di me.
Prenderemo il treno non appena nonno Giuseppe incasserà la pensione, mi assicura la nonna.
Voglio andare via, non mi piace star qui, sono a mille chilometri da casa, queste madri sono brutte, gridano per chiamare i figli, gridano per parlare con loro.
La mia mamma è bellissima e ha la pelle profumata. Mi canta canzoni e la sua voce riempie tutte le stanze.
Mi ricordo il viaggio, lunghissimo, i panini che la nonna aveva preparato, quel senso di estraneità alle cose che mi stanno intorno.
Al nostro arrivo a Pavia è bianca e affilata, ora davvero sola.
Morti tutti, le resto soltanto io.
Mi ricordo anch’io i viaggi lunghissimi e senso di estraneità alle cose mi stavano intorno. Avevo immagato me da piccola. Che bello!!!
Sembra la scena di un film! Molto bello!
La scena di un film!
Grazie, cara Vida!
Come scritto su FB il racconto è sublime ,il prosieguo temporale eccellente mi hai riportato a ritroso nel tempo con i miei fratelli/gemelli…un sogno. Un abbraccio.
Massimo caro, le tue parole mi commuovono, grazie
Puntuale e rigoroso il tuo racconto arricchito da dettagli che lasciano affiorare le tue sensazioni. E il divario tra nord e sud nelle tradizioni e nel modo di essere è presentato in maniera fedele e accurato. Bravissima cara M. Paola. Orgogliosa di averti come collega.
Cara Carla, grazie per le tue parole!
La felicità! La foto ci racconta la tua felicità, l’orgoglio della bambina vicino alla sua Mamma.
E Salice….due anni fa…come guardare un film in super8!
Che bella storia Maria Paola.
Che belle parole! Grazie, Mac, con tutto il mio cuore
Preziosi ritagli di vita vera, riportati con abilità descrittiva innata ed impareggiabile! ❤️
Grazie per le tue parole, Andrea caro!