L’estate del 1983, l’anno della mia maturità, si rivelò una delle più calde del secolo passato. L’afa si era sdraiata torrida e opprimente sulla Pianura Padana, inibiva sul nascere ogni facoltà di azione, Pavia languiva lentamente e inesorabilmente, e i miei genitori, nel tentativo di ritemprare le mie energie, dopo mesi di studio “matto e disperatissimo”, ebbero la felice idea di affittare una villa a Casamatti, ridente frazione di Romagnese, alle pendici del Penice, a 960 metri di altitudine, dove mi preparai, in un clima decisamente più propizio, a sostenere l’esame.
Quell’anno papà, insieme a suo fratello, si era cimentato nella coltivazione dei pomodori.
In un piccolissimo appezzamento di terra che avevamo affittato, nei dintorni di casa, producemmo una quantità inopinata del rubescente, appetitoso frutto della famiglia delle Solanacee che, oltre a diventare il protagonista indiscusso delle pietanze servite sulla nostra tavola quotidiana, distribuimmo a destra e a manca tra amici, conoscenti, ex-vicini di casa, che raggiungevamo nelle loro nuove abitazioni, dato che l’unico ramo parentale presente a Pavia era coinvolto in prima persona, a fianco di papà, in questa ferace attività agricola.
I pomodori perseguitarono noi e i nostri invitati per un’intera estate, poi, l’anno successivo, il trasferimento a Roma e il conseguente, brusco abbandono del piccolo orto che ci aveva regalato tante soddisfazioni.
Il 22 giugno scorso è toccato a Livia sostenere l’esame di maturità, anche lei esausta dopo un anno di “studio matto e disperatissimo”, funestato per di più, nell’ultima settimana, dall’assordante frastuono del martello pneumatico degli operai, impegnati nella ristrutturazione dell’appartamento al superattico, giusto sopra la nostra testa.
E, come mio padre e mio zio, in quel lontano 1983, Mac ed io, a distanza di 38 anni, abbiamo dato il via alla nostra coltivazione di pomodori ciliegino a grappolo, in quattro vasi rettangolari che abbiamo sistemato sul lato più esposto al sole del nostro appartamento di città.
Per la verità, già lo scorso anno ci imbarcammo baldanzosi nell’impresa, con l’acquisto di tre piantine di pomodoro San Marzano, al mercatino domenicale di Trevignano. La produzione, però, non ci gratificò e ci ripromettemmo di rinnovare l’esperienza, facendo cadere la scelta sul pomodoro ciliegino suddetto, convinti che sarebbe diventato il fiore all’occhiello della nostra produzione autarchica.
Tra le oltre 50 specie di piante che deliziano il nostro sguardo, infatti, è stato ricavato uno spazio destinato alla coltivazione delle fragole, che ci assicurano un raccolto pressoché quotidiano, arricchito da quelle di bosco, nate spontaneamente in parecchi vasi, probabilmente per opera dei passeri, abituali frequentatori del nostro terrazzo; l’albero di ulivo ci procura ogni anno un vasetto di frutti neri e lucenti, della varietà taggiasca, che conserviamo con sale e origano e riserviamo esclusivamente ad una selezionatissima élite di ospiti; il mandorlo una manciata di semi oleaginosi che, di solito, non ci resta che consumare sul posto, appena colti, per non tacer del fico che, trapiantato nel giardino dei miei, ha addolcito innumerevoli estati.
Ma queste piante di pomodorini si sono rivestite di un significato più profondo, ci hanno coinvolto emotivamente ancor prima del loro invaso: in primavera siamo andati a raccogliere le canne secche, lungo la strada che costeggia le rive del lago di Bracciano, che le avrebbero sostenute nella loro crescita; abbiamo curato la sistematica rimozione delle cosiddette femminelle, i germogli che si formano all’incrocio tra il tronco e il ramo; abbiamo stanato le farfalle che si cibano delle foglie. E le piantine ci hanno sorriso, domenica 20 giugno, con il primo raccolto, debitamente immortalato in una coreografia all’uopo predisposta, presagio di una produzione che si rivelerà, ne siamo sicuri, senz’altro generosa.
In questi primi giorni d’estate, i pomodorini ciliegino si sono adagiati turgidi e dolcissimi sulle friselle salentine, condite da un filo d’olio extra vergine d’oliva e foglie di origano; hanno fatto capolino tra gli ingredienti delle insalate di riso e di pasta nelle quali abbiamo cercato un po’ di refrigerio al caldo torrido che ci insegue sin nelle nostre abitazioni.
E sarà che in ognuno di noi alberga latente il DNA del primo uomo che, si incanta ad osservare il ciclo perenne della Natura feconda e scopre l’agricoltura, che ciò che nasce e cresce con il lavoro delle nostre mani ci pacifica e ci rende più concretamente parte di un misterioso tutto, che ogni sera ci ritroviamo devotamente tutte e tre in religioso raccoglimento di fronte alle nostre piantine, che ormai hanno superato il metro e mezzo di altezza e nei fiori gialli che stanno sbocciando ovunque ci promettono di rinverdire i fasti di un’estate di tanti anni fa.