“Mutatis mutandis”, cambiate ciò che deve essere cambiato, ammonivano in latino i nostri progenitori.
Che poi la frase, un’antica formula notarile, si rivestisse nello specifico di un particolare valore semantico ovvero “fatta eccezione per le eventuali modifiche necessarie”, poco importa.
Ciò che ci preme è dimostrare che, ancora un volta, un po’ di sana etimologia ci può fare scoprire interi universi celati in una sola espressione.
Nel nostro caso prenderemo senz’altro le mosse dalla traduzione letterale del termine latino.
Mutande, participio futuro passivo del verbo mutare.
Un indumento “da cambiare”, in altri termini.
Una parola, un imperativo. Una negazione dell’immobilità per noi stessi e per chi ci sta vicino, un rinnovamento quotidiano del nostro intimo.
Un processo ostacolato nel corso della storia, mal interpretato, addirittura frainteso, trionfante solo dalla metà del secolo scorso.
Il destino delle grandi scoperte.
La citazione di quest’ultimo velo che si frappone tra noi e l’esterno, nell’atto estremo della volontaria privazione delle apparenze di un abito, salta a piè pari la più tarda antichità anche se, in verità, l’uso di pantaloni maschili, a mo’ di mutande, sembrerebbe risalire alla notte dei tempi. Senza contare, poi, che ci risulterebbe quanto meno sconveniente pensare che le severe parole di Catone il Censore contro le dissolutezze della moda ellenizzante, siano state pronunciate a ventre scoperto, celato appena tra i panneggi di una candida toga, nel bel mezzo della riunione plenaria del Senato romano.
Per ritornare alle fonti che testimoniano la progressiva diffusione dell’indumento, la sua prima citazione compare nel “Roman du renard”, sullo scorcio del 1100, sotto le spoglie del sostantivo “braies” da donna.
In un testamento del 1268 e, successivamente, nelle pagine di un manoscritto del 1380, cambiano nome e vengono citate come “mutandas de lino” e “mutande feminale e femorale”.
“Braghesse” o “caleçons”, indicanti rispettivamente la versione femminile e maschile del capo, appaiono invece frequentemente negli inventari e negli epistolari dei secoli XIV e XV.
E dopo la gloria, la disgrazia. Enrico III le considera immorali e le mutande vengono riposte nei cassetti dell’oblio.
Il secolo XVII saluterà la nuova primavera favorita dal diffondersi dell’equitazione. Ma è un fuoco di paglia.
Anche in questo caso, infatti, i pregiudizi continueranno a perseguitarle sino al 1830, tacciandole di stravaganza e futilità.
Nel 1807 si indossano mutande lunghe fino alla caviglia che nel 1822, con il nome di “pantalons pudiques”, arricchiranno anche il guardaroba delle bambine.
Finalmente il senso pratico delle cittadine inglesi e tedesche, che le adotteranno definitivamente, contagerà anche la dolce Francia verso la metà dell’800.
Il successo è strepitoso. In un batter baleno un intero esercito di mutande varca i confini delle nazioni.
Con il passare degli anni diventa vessillo di libertà ed emancipazione, trasformandosi in costume da bagno e riducendosi via via ad una semplice intuizione di stoffa dal nome esotico (tanga), per i nostalgici della foglia di fico o per i convinti assertori della quarta dimensione.
Negli anni ’80 lo yuppie celerà, sotto il look rampante del coordinato pantalone, l’indole fanciullesca di un boxer ad elefantini o lo spavaldo rosso fuoco dell’uomo che non deve chiedere mai.
Lunghe o corte, a pantaloncino o slip, disegnate o a tinta unita, detonatori o meno di reazioni sconsiderate, le mutande hanno varcato il terzo millennio con la consapevolezza che, volente o nolente, bisogna cambiare ciò che deve essere cambiato.