Quando ho aperto la pagina Facebook per pubblicizzare il mio sito Internet, mi ha raggiunta Rocco F., che conosceva mio padre e i suoi fratelli, il quale mi ha consigliato di frequentare “Rabatana, bagatelle e cammei”.
Nome che parla di giochi di prestigio, di abilità che forse, nell’opinione di qualcuno, potrebbero rivestire una risibile importanza se anche nella semantica estesa di questa parola è contemplato il senso di cosa di nessun conto, quisquilia. Bagatella accostata a cammeo, alla gemma decorata a rilievo, al suo ossimorico opposto che ne sottolinea la ricercata eleganza. E su entrambi si erge a fortilizio la torre Rabatana.
E a me viene in mente una mattina feroce di sole agostano, la terra gialla, interrotta da timidi ricordi d’erba, e la torre saracena, e una donna bellissima, mia mamma, e il cavalletto portatile rosso mattone, e il suo pennello in lieve volteggio prima di abbandonare il colore sulla tela, di confondere i contorni del carboncino, di ingannare il disegno. Io con i capelli negli occhi, che la guardo e la amo.
Tricarico si apre negli scorci delle tele che mia mamma ha dipinto, dal vivo, negli angoli remoti, e ispirandosi alle splendide fotografie di papà.
A Tricarico, l’ultima volta, tutti insieme, i miei genitori, mio marito, mia figlia undicenne ed io, dal 12 al 14 luglio 2013, in occasione del matrimonio della nostra adorata Lenina.
Ritmi del sud, chiacchiere, caldo.
Andiamo a trovare zia Teresa a Sant’Antonio, un bel posto, un convento ombroso con una grande corte dove c’è la statua di don Pancrazio Toscano, dove più di quarant’anni fa si sono messi in posa per una foto nonno Giuseppe e nonna Carmela, al nostro ritorno da Palinuro.
Le pareti del chiostro parlano storie raccapriccianti di santi dalla testa dimidiata dal fendente di un’accetta, di spiriti maligni, di bambini messi a bollire in calderoni.
Zia Teresa ci riconosce subito, tutti, eretta, le stesse labbra livide, escoriate da un lutto eterno, che da bambina non potevo fare a meno di fissare, come flagellazioni di un altro tempo, che si infligge chi rimane in vita.
E adesso davanti a lei mio padre è così piccolo e tutto è capovolto. Piange e piango io con Livia che vuole tornare presto a trovarla.
Fuori di lì è pieno di sole che ci insegue in mezzo alla piazza, su, oltre l’arcata del Palazzo Ducale, tra i vicoli, davanti a due sposi, alla torre saracena. Tutto è uguale: la luce che sferza le pietre della torre e del fronte del dirupo di case alle sue spalle; il sud che discarica negli angoli, che decompone sotto il sole. E al di là del dorso da cartolina di Tricarico, con la torre normanna a destra, fuori scala, i campi arati, a distesa, le vigne, le terre che si allontanano ma ancora sono paese perché Tricarico è fatto di secoli di braccia che cavano grano.
Le terre del Signore del feudo, del marchese di Carabas della fiaba di Perrault e anche oggi ai miei occhi dominio dell’arsura, zolla graffiata.
Tende agguati la gravina.
A Tricarico si arrivava dai boschi. L’Appia lasciava la Basentana, la valle, gli impianti industriali e si inerpicava nel cuore della Lucania, nella radice stessa del suo nome.
Il bosco fitto d’ombra di querce imponenti, la pausa della sete, rari gli uomini e le cose, per lo più baracche di campagna.
Quando siamo partiti da Tricarico ho avuto, come sempre più spesso da qualche tempo, l’impressione di non ricordare la successione delle terre, dallo spiazzo della torre saracena. Mi è capitato per il Museo Archeologico di Damasco, per qualche particolare del mio viaggio in Siria. La paura di non essere stata capace di catturare tutto – e mi sono impegnata – di avere mancato il dettaglio.
Voglio ritornare, l’avrei fatto con Livia, dal 20 al 23 dicembre dello stesso anno, sotto Natale, per ritrovare l’odore delle stufe, le notti che ti cadono addosso a metà pomeriggio, il forno, i gesti di mia nonna, sacri come il pane quotidiano. E io che esco per andare in piazza, con il loden blu e i ceci tostati in tasca, per andare in latteria e per strada incontro Antonio che apre il portone di casa e mi vede mentre arrivo.
Vorrei poter entrare ancora nella casa di mia nonna, ritrovare i panzerotti di Natale e il freddo pungente su per la strada.
Quasi davanti all’uscio la mamma di Donatella e Maddalena.
Mi guarda come qui guardano i forestieri, uno sguardo del sud che si corruga in mezzo agli occhi, lo sguardo di chi sta sulla sua terra e guarda l’altro. E io vengo da lontano come questa parola, forestiero.
“Paola, che ci fai qui?”. E’ Maddalena. Principessa di una favola storta, dispetto della fata esclusa dal banchetto. Che mi ha riconosciuta ad uno sguardo.
Il sabato finisce subito. Ci ritroviamo tutti a tavola allo chalet, a Tre Cancelli.
Il giorno dopo il matrimonio è una festa bellissima. Livia in bianco porta gli anelli agli sposi con il piccolo Nicola. Pranzo sontuoso e danze con musica dal vivo.
Ci sono tutti. Al nostro tavolo le sorelle di Mimmo e Filippo che intesse motti di spirito con papà che ride, è spensierato e balla con la mamma.
Non è così da tanti anni anche se so che li sta salutando ad uno ad uno, come ha salutato le strade e la piazza, subito, al nostro arrivo, con la notte, perché chi da tempo non ritorna ha bisogno di mettere in ordine le cose. E lui non vuole ritornare più.
E così è stato. Ci ha lasciati il 25 agosto 2016. Il 5 maggio 2017 lo ha raggiunto mia mamma.
Delicato ricordo degli zii, Mimmo e Augusta, così, proprio come sono stati loro, garbati, appunto …delicati.