In architettura la bifora è una finestra divisa in due luci uguali da un elemento centrale verticale, spesso una colonnina. Se ci affacciamo indifferentemente ad una delle due, il panorama che si apre al nostro sguardo sostanzialmente non cambia, ma l’inquadratura ritaglia sul paesaggio una differente prospettiva, in quanto implica necessariamente il lieve spostamento del nostro punto di vista.
Ho voluto intitolare “Bifore” un ciclo di mie composizioni, intendendo definirle come inquadrature poetiche del medesimo scorcio, spostando appena di un poco il focus dello sguardo. Sono costituite, in altre parole, da due impressioni liriche, composte anche in tempi e occasioni diverse, che condividono le suggestioni dello stesso paesaggio emotivo, fanno riferimento a fatti che, magari, ad un veloce colpo d’occhio, non sembrerebbero essere interrelati ma che, in realtà, celano le trame di una riflessione che, nel tempo, è andata arricchendosi di nuovo sentire, e in una suggestione lontana ha scoperto la sua radice.
Nella Bifora XXVII, intitolata “Sacro quotidiano”, scrivevo i due frammenti che riporto:
Voti
Nelle pieghe recondite dei giorni
stipo preghiere di felicità
a precipizio è il tempo.
Ci sono io
non dartene pensiero.
Di mattino
Consacro a memoria l’aria
che respiro
e impasto il pane
germine e primordio
romanzo della terra.
Avevo intenzione di legare a nodo stretto il prendersi cura dell’altro con il gesto quotidiano e millenario di impastare il pane, germine, seme primo, che ha nutrito l’uomo, ha scritto e ne scrive la storia, sacro rito del giorno che sta per avere inizio.
Ciò che per le generazioni che ci hanno preceduto costituiva un comportamento domestico abituale, e che per alcuni di noi ha significato un ritorno alle origini, quando, in occasione delle vacanze, si andava a far visita ai nonni e ci si stabiliva per qualche tempo da loro.
Quando si arrivava a Tricarico, all’alba, dopo aver viaggiato per l’intera notte, mi ricordo la fetta fragrante di pane, il roccolo, che mia nonna Carmela mi porgeva, tentando sempre di accompagnarla con della marmellata o quant’altro, salumi, formaggio o verdure sott’olio.
Faticavo a rifiutare le sue offerte, ma il fatto era che volevo sprofondare nel profumo di quel pane che lei tagliava, appoggiandolo al petto.
La crosta croccante, scalfita dalla lama, opponeva una tenue resistenza e cedeva, con un leggero crepitio, come di legna sul fuoco o, almeno, questa era l’immagine che mi suscitava.
Il coltello avanzava nel corpo spesso ed elastico della mollica, e la fetta conservava un profilo leggermente concavo, pronto ad accogliere.
Il pane nudo, con quella caratteristica nota appena percettibilmente acida del lievito madre, e l’odore di cose che maturano nel tempo lento.
L’anno scorso, nel periodo della chiusura imposta dall’emergenza sanitaria della diffusione del virus Sars Covid 19, il lievito di birra era diventato un articolo rarissimo, un bene primario da mercato nero. Introvabile negli scaffali dei supermercati.
Dopo circa un mese di vana caccia, Mac si presentò a casa con quello che definii immediatamente un laterizio, date le dimensioni cui, decisamente non ero abituata: 500 grammi di lievito di birra, composti in un solido mattone, che venne debitamente, religiosamente porzionato e conservato nel reparto freezer.
La presenza di quell’inopinata abbondanza, che temevo si deteriorasse, mi aprì una prospettiva sino a quel momento mai percorsa: panificare.
Sorrise la mia coscienza, perché, a casa mia, il pane è sacro e anche quello secco, in una sorta di metempsicosi pitagorica, si è sempre inventato con successo nuovi ruoli da protagonista, nella preparazione delle più disparate vivande dolci e salate.
Amo impastare i panini con l’uvetta, che mi ricordano il filone che la mia adorata Anna nel suo forno, a Voghera, vendeva a fette; in occasione delle festività natalizie, accompagno le portate con pani a foggia di abete addobbato o di stella. Per non tacere del pane azzimo, caro a nonna Carmela.
Ma il rito che semina ogni altro rivale e si guadagna l’alloro famigliare è la pizza del fine settimana. Ci si rinuncia malvolentieri e solo per comprovate cause di forza maggiore.
Impasto con la punta delle dita, esercito soltanto la minima pressione necessaria: non è concepibile mortificare, schiacciare con il robusto vigore della mano rinchiusa in un pugno la pasta che noi lavoriamo per ottenerne l’esito diametralmente opposto: la lievitazione.
Quando vivevamo a Pavia, trascorrevamo la domenica pomeriggio a casa dello zio Pasquale, fratello minore di mio padre, e di sua moglie, la zia Gina, che io amai nello stesso istante in cui la conobbi, a Tricarico, giovane, sorridente, vivace ed affettuosa fidanzata, in visita alla famiglia del futuro marito.
La sera insisteva perché ci fermassimo a cena; papà preferiva tornare a casa, non fare tardi, l’indomani sarebbe ricominciata la settimana, con i consueti impegni di studio e di lavoro e io, in silenzio, pregavo perché si lasciasse convincere e acconsentisse.
Zia Gina preparava i panzerotti fritti, con il pomodoro e la mozzarella, si muoveva veloce in cucina e in ogni suo gesto chiacchierava l’allegria e la gioia di stare insieme.
Io cantavo le canzoni dei Beatles a Titti e Giuseppe, i miei cuginetti, mia mamma scherzava con la zia, facevano le sceme, come dicevano loro, e mio padre stava seduto in salotto con suo fratello. Ogni cosa al suo posto, nell’aria che incominciava a inspessirsi dell’odore di fritto e delle nostre risate.
Il sabato mattina sistemo la spianatoia di legno sul tavolo, miscelo le farine, il sale, verso l’acqua tiepida e lavoro l’impasto che spenderà un’intera giornata per crescere, per ritrovarci, ancora una volta, insieme.