Vi sarà certamente capitato di udire qualcuno, a cui avevate indirizzato un sincero, benaugurante “In bocca al lupo!”, rispondervi “Viva il lupo!”, probabilmente per non essere tacciato di insensibilità animalista o ecologista che sia e, in secondo luogo, per risarcire a posteriori il famigerato canide, bistrattato da intere generazioni di favolisti, nonché divulgatori di leggende, tradizioni e adagi popolari di un’Europa ancora ricoperta dai boschi.
In altre parole, si preferisce riparare sul politicamente corretto “Viva il lupo!” e, nel contempo, si dà mostra di ignorare che “In bocca al lupo!” nacque come formula apotropaica, espressa per antifrasi, destinata, con ogni verosimiglianza, ai cacciatori, che spesso, nel corso delle loro spedizioni, si imbattevano nell’animale “salvatico, voracissimo”, come viene definito nella prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, risalente al 1612. Per antifrasi, appunto, si augurava al cacciatore di finire nelle fauci del predatore più temuto, proprio per scongiurare il pericolo che ciò accadesse. All’uomo, dunque, non restava che rispondere “Crepi!”, formula di rito, carica della stessa funzione apotropaica.
Con il passare del tempo, l’augurio superò il ristretto ambito nel quale era stato coniato e dilagò nella quotidiana colloquialità della lingua, ad auspicare che la mala sorte non si abbattesse su chi si fosse trovato ad affrontare situazioni critiche o pericolose.
Inutile, a questo punto, commentare la vacuità della risposta che, a dispetto del valore storico e semantico dell’espressione originaria, preferisce risparmiare l’animale piuttosto che chi si trova ad affrontarlo, ovvero si augura che le situazioni difficili ci fagocitino, senza possibilità di successo alcuno da parte nostra.
Ci si affretta a condannare le parole e non ci si perita di confrontarsi con il loro significato, con la storia che le sottende.
Le notti di milioni di fanciulli sono state popolate dal lupo, paradigma della nequizia e dell’appetito insaziabile. Mia mamma non se ne è mai servita per tenermi a bada – non era necessario, ero una bimba educata ed obbediente – ed ha sempre creduto in un dialogo aperto e franco, che mi inducesse a riflettere e mi aiutasse a costruire ed esprimere la mia visione del mondo.
Io, che nella mia giovane vita, ero stata turbata solo dallo “Zio Lupo”, trascrizione di Italo Calvino di una fiaba romagnola, letta in un volume de “I Quindici”, mi struggevo, invece, per il cavallino della ninna nanna di Renato Rascel, che se ne andava per i pascoli del cielo, indossando un mantello tutto d’oro, “nell’azzurrità”, alla ricerca del suo padroncino, e per la triste sorte che sarebbe toccata agli animali vivi, che da lì a poco mia nonna o mio nonno paterni avrebbero ammazzato e servito sul desco apparecchiato.
Nel 1992 i fratelli di mio padre, che si erano trasferiti da qualche anno in provincia di Modena, decisero di vendere la casa che nonno Giuseppe aveva costruito dopo la guerra, in cui nessuno, ormai, abitava più dal 1984, da quando i nonni avevano raggiunto i figli in Emilia.
Papà se ne interessò personalmente e alla fine di agosto, fissò a Tricarico un appuntamento con il perito cui affidò l’incarico di stimare l’immobile. Fu quella, dopo tanti anni, l’ultima occasione di pernottare con i miei genitori, nonna Carmela e Natascia, mia cugina, in quella bella casa, spaziosa, su due piani, dove ci eravamo ritrovati tante volte insieme.
Si salivano quattro gradini e la porta d’ingresso, sotto un arco di scarico, si apriva su un’ampia cucina quadrata. In fondo, sulla destra, uno sgabuzzino stretto e buio dove venivano riposte le trecce di pomodorini e peperoni da essiccare, le collane di fichi, le focacce appena sfornate, i sacchi di crusca, grano e farina.
Dietro la cucina un’altra stanza con il frigorifero, un mobile letto, dove dormivamo mia cugina Antonella ed io, una credenza con i bicchieri e le stoviglie delle feste, e che, attraverso una porta, dava sull’esterno.
Quella era la stanza dei vavacilecchi. Nei giorni di pioggia nonno Giuseppe andava per campi a raccogliere lumachine bianche striate, i vavacilecchi, appunto. A casa li riponeva in bacinelle che ricopriva con setacci per non farli scappare. Ma l’indomani i vavacilecchi erano ovunque, su per le pareti, sui mobili e noi bambini eravamo contenti perché le lumachine si erano guadagnate la libertà.
Nonna Carmela, piccola, minuta, molto carina, rapidissima, senza perder tempo, rimetteva tutti i vavacilecchi nelle bacinelle dove avrebbero dovuto spurgare, prima di essere cucinati in umido, col pomodoro e l’origano.
Una volta vidi mia nonna alle prese con anguille vive che sgusciavano dal lavello di ceramica della cucina, e serpeggiavano sul pavimento, nere e lucenti, per sfuggire alla cena della vigilia di Natale.
Anche una gallina che nonno Giuseppe aveva comprato la mattina al mercato cercò di scampare alla morte, levandosi in un breve, goffo, impossibile volo.
Nella casa dei miei nonni a Tricarico ho visto uccidere animali che, poi, sarebbero stati cucinati.
Il sangue che imbeve la terra di un rito pagano. Mia madre aveva parenti che vivevano in campagna, al Buscofà, che avevano terreni e animali ma non mi era mai capitato di essere presente e assistere all’esecuzione di un pollo.
E’ per questo che l’idea del sacrificio sull’altare dell’uomo è legato a Tricarico e a quell’odore di carne fatta a pezzi che resta attaccata alle cose. Avevo l’impressione che ad ogni passata di straccio il sangue risorgesse più acuto e ferino, rivendicasse la memoria di una terra preistorica.
In una casa vicina a quella dei nonni, in un pomeriggio d’inverno, uccisero il maiale, con un pugnale fatto di legno, infitto nella gola, per raccogliere nelle bacinelle il sangue che fiottava insieme alle grida dell’animale, in mezzo agli uomini ebbri di quell’abbondanza. E io rimasi immobile, affacciata sul piccolo cortile dove si stava consumando un rito che sapeva di Dioniso e di ecatombe pagana, gli occhi spalancati su quegli uomini famelici, figli del lupo.