Ho varcato la Porta dei Leoni

Micene

A Micene la storia si tinge dell’epos omerico e ha la cadenza solenne della tragedia classica di Eschilo ed Euripide.

E’ questo un viaggio tra le rovine della cittadella e i versi immortali dei grandi autori della letteratura greca, che raccontano la storia del re che si mise a capo della spedizione degli Achei verso Troia, per vendicare l’oltraggio di Paride a Menelao, suo fratello, re di Sparta, rapendogli la moglie, la donna più bella del mondo, Elena, figlia di Leda e di Zeus.

La Porta dei Leoni che si apre nel corpo delle mura in opera quadrata del XIV sec.a. C., la cittadella sulla collina, nel paesaggio scabro dell’Argolide, la pietra e la roccia esercitavano su di me un fascino potente, acuito dalla lettura dell’Iliade omerica e dagli echi delle imprese di Heinrich Schlieman di cui ero una grande ammiratrice nella mia infanzia.

Poi, all’università, la prima annualità dell’esame di Archeologia e Storia dell’Arte Greco-romana, con il Prof. Bacchielli, e l’incontro con la civiltà minoica, prospera e vivacissima nel realismo delle sue creazioni artistiche a imitazione della natura. Ricordo, in particolare, un’anforetta decorata con un polpo, disegnato obliquamente, che si snoda con i suoi tentacoli sino a ricoprire la superficie panciuta. L’arte micenea, al contrario, aveva cristallizzato in rigide forme anche i più freschi elementi floreali o marini, ispirati dal mondo minoico, svuotandoli della loro felice vitalità.

Al posto dei palazzi in cui la natura entrava a far parte del progetto architettonico che si adattava ai cambiamenti di quota e si sviluppava, di conseguenza, su livelli diversi, e alle città, prive di fortificazioni o, solo talvolta, di baluardi modesti, la cittadella micenea incuteva un subitaneo, amaro senso di guerra.

I miei compagni di università avevano organizzato un viaggio nel Peloponneso a cui, con mio grande rammarico, non potei partecipare, e Micene è rimasta uno dei luoghi dei miei desideri fino al 2017, quando con Mac e Livia, da Atene, la raggiunsi in un’automobile a noleggio.

Sarei salita sulla cittadella, avrei passato la Porta dei Leoni, visitato la tholos di Atreo e di Clitemnestra.

Ero molto emozionata. Avevamo lasciato Atene in una tersa giornata di vento, avevamo attraversato lo stretto di Corinto ed eravamo entrati nell’Argolide montuosa. Cercavo di indovinare da lontano la collina su cui sorge la cittadella, tra le alture che fanno da sfondo alla carreggiata.

Micene, la civiltà che da lei prende il nome, quella minoica che l’ha influenzata, a partire dalla fine del XVII sec. a. C., quando sul Mediterraneo si intrecciava la fitta rete delle relazioni commerciali tra i popoli e in Argolide incominciano ad apparire centri urbani ben organizzati, con necropoli che attestano una ricchezza e una cultura artistica non confrontabile con le manifestazioni della cultura elladica precedente.

Non sono rimaste le vestigia dei palazzi delle prime dinastie micenee, svaniti nelle successive ricostruzioni, ma negli esempi risalenti al XIV sec. a. C., come quello di Micene, è possibile riconoscere delle caratteristiche differenti rispetto a quello minoico, innanzitutto per le dimensioni, dettate dalla scarsa estensione delle cittadelle in cui sorgevano.

Il centro era costituito, come in quelli minoici, da un cortile, attorno alla quale si distribuiscono i vani, quella che Omero chiama aulè, alla quale si accede attraverso un propileo a due colone. Sul lato opposto a quello del propileo, sull’aulè, si apriva il megaron, la sala di rappresentanza del signore, una struttura architettonica tripartita, composta da un portico, da un anticamera e dalla sala del trono, con focolare centrale, iscritto tra quattro colonne che sostenevano il tetto piano, dotato di lucernaio per l’aria e la fuoriuscita del fumo.

Una struttura, insomma, opposta per concezione alla sala minoica e che si ispira, invece, alla tradizione elladica della casa rettangolare con portico. Sulle  pareti, a differenza di quelle minoiche, partite in fregi e pannelli, prendevano vita scene complesse di caccia e di guerra che celebravano le imprese del signore.

Le cittadelle micenee vennero definitivamente distrutte intorno al 1200, probabilmente a seguito della prima invasione dei Dori. Dal tramonto della civiltà micenea sorgerà quella greca classica di cui Atene diventerà uno dei più interessanti centri propulsori. Atene, secondo la tradizione, venne risparmiata dai Dori e nell’epoca tarda micenea era una cittadella fortificata con il palazzo e tombe a camera con corredi di ispirazione dichiaratamente micenea.

A proposito di necropoli, la straordinaria ricchezza dei corredi non ha precedenti nell’arte elladica di epoca più tarda. Micene ha due recinti funerari circolari di tombe a fossa: quello interno, del XVI sec. a. C., attribuito ad Agamennone da Schlieman che lo scoprì, fu compreso entro le mura di cinta nel XIV sec. a. C.; quello esterno, venuto alla luce di recente, è databile alla fine del XVII sec. a. C. Tombe, probabilmente, appartenenti ad un’antica dinastia micenea, con corredi di oggetti in oro e argento, tra i quali la cosiddetta coppa di Nestore, le armi ageminate con oro, argento, elettro e le maschere auree, in una delle quali Schlieman riconobbe Agamennone.

A Micene, l’architettura funeraria si arricchisce della tipologia della tholos che, pur ispirandosi a quella minoica, la reinterpreta, rinnovandola. La camera circolare, ricavata nel pendio di una collina, è rivestita con blocchi squadrati disposti ad anelli che vanno mano a mano a restringersi verso la sommità, formando una cupola a ogiva, a falsa volta, per effetto della gravitazione dei blocchi. Un lungo corridoio conduce alla porta, costituita da stipiti e architrave monolitici e sormontata da un triangolo di scarico.

Visitai con Livia e Mac le tholoi di Atreo e di Clitemnestra, che ne rappresentano il risultato tecnico e artistico più notevole. All’ingresso della tholos di Clitemnestra raccolsi un coccetto di un manufatto in terracotta con decorazione geometrica.

Agamennone e Clitemnestra, storia di amore, sangue, tradimento e vendetta, in cui i figli pagano per le colpe dei padri e per quelle di cui si sono macchiati. Agamennone, insieme a Menelao, era l’erede di quell’Atreo, re di Micene, che aveva imbandito al fratello Tieste, con cui era in contesa per questioni dinastiche e che aveva invitato a banchetto, le carni dei suoi figli.

Una scia di sangue precedeva Agamennone e su una scia di sangue egli continuerà a camminare: dall’uccisione del primo marito di Clitemnestra, che poi sposerà in seconde nozze, a quello della sventurata figlia, Ifigenia, vittima che non esita a sacrificare, su indicazione dell’indovino Calcante, per propiziarsi la dea Artemide che aveva offeso e i venti che devono spirare sulla poppa della flotta achea, radunata in Aulide, in procinto di salpare alla volta di Troia.

Clitemnestra coverà per dieci anni un odio sordo nei suoi confronti e attenderà, paziente, il momento della vendetta quando, di ritorno da Troia, spalleggiata dal suo amante, Egisto, cugino di Agamennone, lo assassinerà, armata di un’ascia, insieme alla sua concubina, la sventurata Cassandra cui il dio Apollo, respinto nelle sue profferte d’amore, ha donato il talento della preveggenza e la maledizione del  rimanere inascoltata.

Quel giorno mentre camminavo tra le rovine della cittadella scrissi:

“Il vento batte Micene, lava il sangue di Atreo, lo strappa brano a brano dalle fenditure delle rocce, dalle commessure dell’opera quadrata, dalle nostre mani che si bagnano della storia universale del tradimento e del delitto del fratello.

Una storia che si racconta mille volte, chiusa in circolo, sotto la stretta delle mura ciclopiche.

Micene è Atreo e il suo sangue, la maschera di Agamennone, grave di assassinio, di morte cruda. E’ l’archeologia che ti toglie il sonno, che balugina oro dal ventre umido e nero della terra.

Distrutto tutto, il palazzo di Agamennone e il suo tradimento e il suo assassinio.

Sul ciglio del Peloponneso il vento dominatore”.

 

 

 

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Massimo
1 anno fa

bellissima esperienza